Specialità italiane
I carciofi alla romana a modo mio
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Descrizione
La ricetta dei carciofi “alla giudia“. Stasera aggiungeremo la spiegazione dei termini più difficili.
Trascrizione
Giovanni: buonasera a tutti, oggi vi faccio ascoltare la ricetta di un piatto eccezionale. La voce è sempre quella di Giuseppina, mia madre, titolare della rubrica “le Specialità ditalia“. Una ricetta italiana, ma che dico italiana: laziale. Ma che dico laziale: romana!
Spiegalo meglio tu mamma!
Giuseppina: Da noi questa è la stagione dei carciofi, un ortaggio adatto a tante ricette di cucina e ricchissimo di antiossidanti, vitamine e sali minerali.
Sono utili in questo periodo dell’anno in cui siamo esposti ad acciacchi e malanni, oltre che depurativi. Io li adoro.
Son molte le varietà coltivate, io stamattina ho comprato i cimaroli romaneschi.
I cimaroli sono quelli che crescono al centro della pianta, sono considerati i migliori da cuocere alla giudìa, ovvero prima stufati nell’olio e poi fritti o, appunto, alla romana.
Servono: carciofi (io ne preparo 2 a persona), prezzemolo, 3, 4 spicchi di aglio, olio abbondante, sale e pepe.

Prepariamo una ciotola con acqua e 2 cucchiai di aceto oppure succo di limone, dove metteremo i carciofi a bagno, mano a mano che li puliamo.

Si puliscono così: tagliamo i gambi alla base, togliamo le foglie più dure, sbucciamo anche i gambi fino alla parte tenera, gli tagliamo poi le punte.

Poi li togliamo dall’acqua, allarghiamo poco poco le foglie, senza romperli, e ci mettiamo al centro un pezzettino di aglio, e un pochino di prezzemolo, sale e pepe.
Li sistemiamo in una pentola senza lasciare troppo spazio vuoto e irroriamo di abbondante olio, deve restarne almeno 1 cm sul fondo della pentola, aggiungiamo un mezzo bicchiere di acqua e mettiamo a cuocere a fuoco medio.
Durante la cottura potrebbe servire di aggiungere un altro pochino di acqua, non devono attaccare alla pentola altrimenti sono amari.

Dopo circa 15 minuti li giriamo , continuiamo altri 15 minuti circa e sono cotti.
Buoni, buoni, buoni. Buon appetito.

Giovanni: allora vediamo chevmia madre ha utilizzato alcuni verbi particolari:
Irrorare: un verbo con ben quattro erre. Mica facile trovarne di altri. Irrorare significa cospargere, versare, bagnare, riempire di liquido, mettere sopra. Solo una sostanza liquida si può irrorare, come l’olio d’oliva appunto. Irrorando i carciofi con dell’olio si mette dell’olio sopra i carcuofi in modo omogeneo, uniforme.
Sbucciare: sbucciamo anche i gambi fino alla parte tenera. Questo generalmente significa togliere le bucce. Le arance hanno la Buccia, le mele, le pere eccetera.
Il verbo in genere è riferito a frutta e verdure, e si può spiegare dicendo “privare della buccia”, cioè togliere la buccia. Al limite potete dire anche pelare. Molto simile in effetti ma pelare si usa con le patate, che ugualmente hanno una buccia. In genere pelare però si riferisce ai peli e non alla buccia. Probabilmente pelare le patate si usa per via del fatto che le patate sembrano avere una pelle più chebuna buccia: pelle è simile a pelare.
In alternativa esiste anche sfogliare, cioè togliere le foglie, ma senza dubbio sbucciare è ul verbo più adatto per i carciofi.
Mia madre ha usato anche il termine “cimaroli” per indicare un tipo particolare di carciofi. Cimaroli viene da cima cioè punta. I cimaroli stanno sulla punta ed al centro della pianta dei carciofi, sono in cima alla pianta,come la neve che sta sulla cima delle montagne.
I Cimaroli o Mammole sono i carciofi più buoni ed anche i più grandi della pianta.
Vediamo poi cosa significa questo nome: I carciofi alla giudia. Alla giudia (attenzione all’accento) significa alla maniera degli ebrei, cioè seguendo la città giudaica.
Potremmo dire anche carciofi alla giudea, con la lettera e al posto della i, ma in realtà la ricetta dei carciofi si chiama alla giudia.
Sono una ricetta tipica del lazio, e se capitate a Roma potete assaggiare i carciofi alla giudia un po’ dappertutto, ma in special modo nel quartiere denominato “il ghetto ebraico di Roma”.
I carciofi alla romana sono quelli che ha cucinato mia madre e sono leggermente diversi da quelli alla giudia, poiché c’è anche aglio, prezzemolo e/o mentuccia ed inoltre i carcuofi vanno stufati, anzichè fritti. Stufare un alimento, significa cuocere a lungo a fuoco lento o medio, in un recipiente ben chiuso.
Un giorno, molto vicino, le ricette di mia madre finiranno in un audiolibro.
Nel frattempo voglio dire a tutti che abbiamo già realizzato due Audiolibri, il primo per principianti ed il secondo per un livello intermedio.
Potete acquistarli su Amazon oppure su italianosemplicememte.com.
Ringrazio infine i donatori di italiano semplicemente che mi permettono di togliere la pubblicità dal sito. Un saluto a tutti.

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Le specialità italiane – EST EST EST
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Trascrizione
Giovanni: buongiorno a tutti e bentornati su Italiano Semplicemente.
Se sei uno straniero che sta cercando di migliorare il proprio italiano questo è il posto giusto per te. Io sono Giovanni e oggi ci occupiamo di vino. Sapete che l’Italia, checché se ne dica, non la batte nessuno in termini di vini e cibo. La rubrica in questione è denominata “le specialità italiane” ed è curata da mia madre Giuseppina, che oggi vi racconta qualcosa su un vino bianco laziale, cioè della regione Lazio, nel Centritalia.
Ricevo molti apprezzamenti, molti complimenti per questa rubrica, ed allora vi lascio volentieri nelle parole di Giuseppina. Ci sentiamo dopo
Giuseppina: Se parliamo di eccellenze nazionali non possiamo dimenticare il vino.
Le nostre regioni ne producono tante varietà, bianchi o rossi, tutti ottimi, ma io voglio farvi conoscere un vino della mia zona, quello della Tuscia Viterbese.

Esattamente a Montefiascone e nei paesi vicini, si produce un eccellente vino: l’est est est.
E’ un vino bianco al quale è stata riconosciuta la DOC (denominazione di origine controllata). Ha un gusto secco, pieno, ed un aspetto limpido e brillante. Buono fresco, con tutti i tipi di pietanze.
Ora però vi racconto l’origine di questo nome particolare:
Nell’anno mille, esattamente nel 1111, Enrico V, re di Germania si stava recando a Roma per ricevere la corona del Sacro Romano Impero.
Un vescovo tedesco del suo seguito, amante del buon vino, per essere certo di gustare solo il meglio della produzione italiana, escogitò un astuto stratagemma.
Si fece infatti precedere, di un paio di giorni, lungo il suo tragitto, dal fedele servo e coppiere Martino che aveva il compito di ispezionare la zona prima dell’arrivo del padrone.
Quando Martino , trovava un vino buono doveva segnalare la locanda con la scritta “est” che significava “vino buono”.
Arrivato nella cittadina di Montefiascone nel Lazio settentrionale, trovò un vino talmente buono che ripeté per tre volte il segnale convenuto con l’aggiunta di sei punti esclamativi. Così accanto alla porta dell’osteria scrisse a grandi lettere: est!! est!! est!!

Il cardinale quando arrivò, apprezzò così tanto questo vino che rimase a Montefiascone per tre giorni, prima di riprendere il suo viaggio verso Roma.
Che ne dite, facciamo un brindisi?
Giovanni: bene, allora mia madre vi ha parlato della Tuscia viterbese. Si tratta di una zona (la Tuscia) che non è una regione amministrativa, ma un territorio abbastanza esteso, grande, che prende parte del Lazio, dell’Umbria e della Toscana.
La Tuscia la possiamo anche chiamare Etruria, dove vissero gli Etruschi parecchi anni fa. Quindi la Tuscia viterbese è la parte di questo territorio che si trova in provincia di Viterbo, una città che si trova a nord rispetto a Roma.
Anche il comune di Montefiascone si trova nella Tuscia viterbese quindi.
Poi vorrei fare chiarezza su alcuni termini usati da mia madre. Vediamo la seguente frase:
Un vescovo tedesco del suo seguito, amante del buon vino, per essere certo di gustare solo il meglio della produzione italiana, escogitò un astuto stratagemma.
Il seguito (attenzione alla pronuncia) è un gruppo di persone che fanno scorta o compagnia a un alto personaggio, un personaggio importante. Quindi il seguito del vescovo tedesco è un gruppo di persone che accompagna il vescovo.
Escogitò un astuto stratagemma: Il verbo è escogitare. Significa trovare con la mente. Quando si pensa intensamente ad una soluzione, per risolvere un problema spesso si usa questo verbo: escogitare.
Quindi quando si escogita qualcosa, si riflette, si pensa, si immagina, si cercano idee per risolvere un problema.
Si può escogitare un trucco, un rimedio, una soluzione, o anche uno stratagemma. La parola stratagemma di solito si usa per indicare una finta mossa, come per ingannare qualcuno, una mossa intesa a disorientare e sorprendere il nemico. Potremmo parlare di espediente, un furbo, un astuto espediente.
Si tratta sempre di superare un problema, un impedimento. In questo caso si potrebbe semplicemente parlare di idea. Il vescovo, molto più semplicemente, ha avuto una buon’idea.
Infine parliamo del “segnale convenuto”:
Arrivato a Montefiascone, Martino trovò un vino talmente buono che ripeté per tre volte il segnale convenuto.
Il segnale convenuto è il segnale (la scritta EST) che Martino aveva convenuto con il vescovo tedesco. Insieme avevano convenuto, cioè avevano deciso, si erano accordati su un segnale. Si erano quindi messi d’accordo su un segnale, avevano concordato che il segnale dovesse essere la scritta “EST” questo era il segnale che avevano convenuto, o semplicemente il segnale convenuto.
Concludiamo col brindisi: il brindisi è un movimento che si fa, è un atto, l’atto di alzare i bicchieri e farli toccare tra loro, farli tintinnare tra loro, dopodiché si beve alla salute di qualcuno, in segno di augurio.
E quando si fa un brindisi non si dice “tin tin” come suggerirebbe la parola “tintinnare” ma in Italia si dice “Cin cin”, entrambi sono suoni onomatopeici ma “cin cin” deriva dal cinese e significa “prego, prego”.
Si dice spesso anche “prosit” quando si fa un brindisi, oppure potete dire semplicemente “alla salute” ed al prossimo episodio di ItalianoSemplicemente.com.
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Le specialità italiane: Le ciambelle di carnevale
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Trascrizione
Giovanni: buongiorno, vi presento una nuova puntata della rubrica: Le specialità italiane, curata da mia madre Giuseppina. State ascoltando un nuovo episodio di italianosemplicemente.com ed io sono Giovanni.
Mia madre Giuseppina vi parla oggi delle ciambelle di Carnevale. Il carnevale è una festa che si celebra nei Paesi di tradizione cattolica, e non ha una data fissa. Si tratta di un periodo di tempo compreso tra la festa dell’Epifania (la Befana, cioè il 6 gennaio) e l’inizio della Quaresima. Una festa religiosa quindi, cattolica. Il Carnevale è famoso perché bambini e adulti posso mascherarsi, cioè indossare delle maschere – le maschere di carnevale appunto. Famosissimo il carnevale di Venezia e di Viareggio in merito, o anche il Carnevale di Putignano, un comune della regione Puglia.
Ma il carnevale è famoso anche per i dolci di carnevale. Giuseppina ci racconta qualcosa sulle ciambelline di Carnevale.
Giuseppina: Quando ero bambina, la guerra era finita da poco e nelle nostre famiglie c’era poco, però ci piaceva festeggiare insieme il carnevale che inizia a metà gennaio.
Allora mia madre, con i pochi ingredienti che avevamo in casa, faceva queste ciambelle che vi assicuro sono buonissime e facili da fare. Io le ho fatte oggi. Iniziamo, facciamo bollire 2 patate medie.
Quando sono ben cotte, le sbucciamo e schiacciamo bene bene.
Sbattiamo 2 uova con 200 grammi di zucchero, aggiungiamo la buccia grattugiata di un’arancia e metà del suo succo, mezzo bicchiere di olio, un pochino di cannella e un quadretto di lievito di birra fresco (sono 25 grammi), sciolto in mezzo bicchiere di latte tiepido. Impastiamo queste uova insieme alle patate, con circa 300 grammi di farina.
Facciamo un impasto morbido con cui formiamo un cordone largo come un dito, lo dividiamo in pezzetti di circa 10 cm.A me sono venute 18 ciambelline, con cui formiamo delle ciambelle.
Le lasciamo riposare una mezz’ora poi le friggiamo in olio bollente.Dopo cotte, ci versiamo sopra un pochino di zucchero.
Eccole qua, le volete provare?
Facciamo un impasto morbido con cui formiamo un cordone largo come un dito, lo dividiamo in pezzetti di circa 10 cm.
A me sono venute 18 ciambelline, con cui formiamo delle ciambelle.
Le lasciamo riposare una mezz’ora poi le friggiamo in olio bollente.Dopo cotte, ci versiamo sopra un pochino di zucchero.
Eccole qua, le volete provare?
Giovanni: grazie mamma, allora patate, farina, uova, zucchero, arance, latte, olio (mi raccomando extravergine d’oliva), cannella (è una spezia) e lievito di birra. Sono questi gli ingredienti.
Approfitto dell’occasione per fare una comunicazione: su Amazon potete trovare il primo audiolibro di Italiano Semplicemente.
Un e-book quindi, con trascrizione integrale degli episodi più istruttivi e divertenti di Italiano Semplicemente. Un libro molto economico da leggere con il vostro dispositivo kindle e ascoltare quando volete, anche mentre vi mangiate le vostre ciambelle di Carnevale appena fatte.
Se non avete un kindle oppure nel vostro paese non avete la possibilità di acquistare su Amazon, nessun problema, posso spedirvi io il file PDF del libro e i file MP3. Fatene richiesta nella pagina sul sito di Italiano Semplicemente.
E’ un modo divertente per imparare l’italiano; spero vi piaccia, perché ne va della reputazione di Italiano Semplicemente.
Un saluto a tutti. E ci vediamo per la prossima specialità.
Buone ciambelle a tutti.
Le specialità italiane: I supplì
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Trascrizione
Giovanni: Oggi parliamo dei supplì, con l’accento sulla i. Difficile trovare una trattoria romana dove non facciano i supplì, dove non cucinino i supplì. Già, perché stiamo parlando di una preparazione tipica della cucina romana. Intorno alla metà del 1800 pare sia apparso per la prima volta, su una tavola, un supplì, strano nome vero?
Pare che venga dal francese e che voglia dire “sorpresa”. Il nome infatti suona un po’ francese. Infatti in francese “sorpresa” si dice “surprise”, quindi supplì viene da surprise. Ma qual è la sorpresa che si trova sorpresa dentro un supplì?
In effetti guardando un supplì dall’esterno, non si capisce come sia fatto, non si riesce a capire cosa ci sia dentro un supplì. Una cosa è sicura: l’ingrediente principale è il riso. Ma ve lo lascio raccontare da mia madre Giuseppina. Vai mamma!
Giuseppina: Oggi per le nostre specialità italiane voglio farvi assaggiare dei meravigliosi supplì di riso.Prima proviamo a fare un po’ di storia sul riso?
Giovanni: bene, allora adesso vediamo qualche termine un po’ più difficile che ha usato mia madre, e poi potete mettervi alla preparazione dei supplì.
Mia madre vi ha parlato del riso Carnaroli, e vi ha detto che è indicato per fare i supplì. Infatti ha detto che la sua particolarità risiede (cioè consiste, o più semplicemente “è”) nella sua capacità di non scuocere e non disgregarsi.
Non scuocere. Cosa significa? Scuocere significa cuocere troppo un alimento. Nella lingua della cucina italiana si usa spessissimo, soprattutto quando si parla di pasta in generale. La pasta, come gli spaghetti o qualsiasi altro tipo di pasta hanno un tempo preciso di cottura: 10, 11 12 minuti eccetera.
Non bisogna cuocerla più tempo del necessario, altrimenti la pasta si scuoce. Il verbo è scuocere, ed il risultato che si ottiene quando si scuoce la pasta è la pasta scotta. Qualsiasi alimento comunque, anche il riso, quando si cuoce troppo, si dice che si “scuoce”. Si dice anche che questo alimento è “passato di cottura”, cioè si è cotto eccessivamente, si è cotto troppo.
La pasta scotta non è buona, e neanche il riso. Eppure ai palati non italiani spesso piace anche di più la pasta scotta rispetto alla pasta cosiddetta “al dente” che invece è cotta al punto giusto, o meglio, è cotta un pochino meno di quanto è indicato sulla confezione.
Quando la pasta è scotta, diventa troppo morbida, si rompe facilmente, e spesso si incolla, si attacca. La pasta scotta è anche più difficile da digerire.
Ma oggi parlavamo di riso. Il riso Carnaroli non scuoce e non si disgrega. Il riso è formato da chicchi, cioè da semi. Quelle piccole palline bianche si chiamano chicchi: un chicco di riso, chicchi di riso al plurale.
Il riso di questa qualità, si diceva, non scuoce, e questo significa che scuoce con molta difficoltà, nel senso che ci vuole molto tempo per scuocere. Un riso che non scuoce si dice che “tiene la cottura”, cioè resiste alla cottura. Un riso molto resistente dunque, ed i chicchi di riso Carnaroli non si disgregano, cioè non si rompono. Disgregare significa rompere, frantumare, sgretolare, disfare. Tra questi verbi, disfare è, tra le altre cose, un verbo molto usato in cucina.
Il riso Carnaroli non si disfa ( o disfà), non si disgrega, non si rompe facilmente.
Un altro esempio col verbo disfare? Se parliamo delle patate, ad esempio, quando cuociamo le patate in acqua bollente, si devono cuocere in acqua bollente ma non fino a farle disfare: le patate non si devono disfare.
Poi mia madre vi ha parlato anche di un altro ingrediente del supplì: il parmigiano che viene grattugiato.

Grattugiare è un verbo che si usa praticamente solamente col formaggio (quelli più duri, non quelli morbidi) e al limite col pane secco, raffermo.
Grattugiare significa ridurre in frammenti minutissimi o in poltiglia con la grattugia. Per grattugiare si usa la grattugia. La grattugia riduce in piccolissimi pezzi, minutissimi frammenti, un pezzo di parmigiano o altro tipo di formaggio oppure anche il pane secco, anche detto “pane raffermo”, come dicevo.
Solo il pane raffermo si può grattugiare perché è duro e secco. Quello morbido non si riesce a grattugiare, non ci si riesce molto bene. Allora buon appetito!


Il Riso si diffuse definitivamente in Europa all’inizio del VIII secolo con l’invasione degli arabi, che lo introdussero.
Risultò da subito apprezzatissimo in ambito alimentare.
In occasione delle grosse carestie, guerre ed epidemie, che si verificarono in quegli anni, la necessità di un cereale altamente produttivo in grado di sfamare molte persone divenne indispensabile.
Nel millecinquecento il riso entrò nella schiera dei nuovi alimenti con i quali placare la fame contadina e fu probabilmente a causa di questa immagine di cibo povero, che il riso non trovò particolare attenzione nei ricettari delle corti cinquecentesco.
Non è facile reperire dei dati sulla produzione e sulla superficie dedicata alle risaia nel corso dei secoli, anche per le alterne vicissitudini di questa amata o odiata coltura, (nei secoli passati si credeva che le risaie fossero causa delle epidemie di malaria. In Italia, durante l’occupazione napoleonica però, risulterebbero già coltivati 40.000 ettari in Piemonte e 120.000 ettari in tutta Italia, mentre nel 1860 solo in provincia di Vercelli sarebbero coltivati a riso 30.000 ettari.
Sono ancora queste le zone dove si produce la maggiore quantità di ottimo riso.
Ora ci sono moltissime qualità di riso, tutte pregiate ed ognuna adatta ad un tipo di cottura.
Il primo fra tutti sicuramente è il Carnaroli, ossia il riso più utilizzato e più pregiato nella cucina italiana.
La sua particolarità risiede nella sua capacità di non scuocere e non disgregarsi, ed è per questo che è indicato per la preparazione di risotti, ma non solo.
Adesso che abbiamo fatto un bel risotto e ne è avanzato un po’ cosa ci facciamo? Io ci farei qualche supplì.
Vogliamo provare a farli?
Allora prendiamo il nostro risotto, che può essere sia con verdure che con ragù di carne, o di pisellini, o semplicissimo, lo mettiamo in una ciotola quando è ben freddo.
Ci aggiungiamo del parmigiano grattugiato a piacere, un uovo, giriamo bene, ne prendiamo un po’ sulla mano, mettiamo un pezzettino di mozzarella o altro formaggio e chiudiamo tutto intorno formando una pallina ovale grande come un uovo.
La passiamo nel pane grattugiato e la friggiamo in abbondante olio bollente. Bastano pochi minuti.
Sentirete che bontà! Adatti sia per cena, che per una festa di adulti o dei bambini, andranno a ruba, provate.
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Le specialità italiane: il parmigiano
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Trascrizione
Giovanni: Ciao a tutti ragazzi. Chi non conosce il parmigiano?
Un prodotto italiano, italianissimo direi e benvenuti su italianosemplicememte.com dove ci occupiamo da qualche tempo dei prodotti italiani, soprattutto i prodotti alimentari, cioè che si mangiano e si bevono. Oggi Giuseppina, cioè mia madre, vi racconterà qualcosa del Parmigiano.
Giuseppina: Oggi per le “specialità italiane” voglio raccontarvi Il parmigiano.
Allora innanzi tutto diciamo che il parmigiano non si fabbrica ma si “fa”. In una zona particolare del nord Italia le mucche producono un latte ottenuto in allevamenti certificati, alimentate prevalentemente con fieno ed erba nella zona delimitata tra il Reno e il Po, nelle province di Modena, Reggio Emilia, Parma e una piccola parte di Mantova (a destra del fiume Po) e di Bologna (sinistra del fiume Reno).
Le sue origini vengono fissate nel medioevo presso i monasteri del luogo.
A distanza di tanti secoli si fa ancora come all’origine, pregiato latte di mucca delle zone di origine, sale e caglio, niente altro.
La sua produzione è soggetta ad un rigoroso controllo sull’applicazione di precise norme di produzione e stagionatura che garantisce l’altissimo livello qualitativo.
Fino a qui la descrizione obbligatoria della sua qualità, ma della sua bontà come ne parliamo? Immagino che lo conosciate già.
Sapete che anche un piattino di squallida pasta o riso diventa una bontà con solo una spolverata di parmigiano grattugiato.
Anche chi è intollerante al lattosio come me, può mangiarlo tranquillamente perché la sua lunga stagionatura lo elimina naturalmente.
Dimenticavo che è ricchissimo di calcio, prezioso alleato delle nostre ossa.
La degustazione del Parmigiano può portare a scoprire nuovi abbinamenti di sapori e può essere fatta da chiunque desideri conoscere i segreti del Re dei Formaggi. Vogliamo Provare?
Lo proviamo con la frutta? Con la verdura? Proviamo dai, poi vediamo se vi piace.
Giovanni: bene, grazie mamma. Dunque innanzitutto vediamo che parmigiano si scrive con una sola p: parmigiano. Molti italiani fanno questo errore comunque, quindi tranquilli! Ad ogni modo se in qualche menù in Italia trovate la scritta con due p abbiate pazienza. Spesso nei menù e nei supermercati trovate poi anche la scritta “parmesan“, ma attenzione perché il termine Parmesan é spesso usato in modo improprio.
Nel caso del ristorante l’utilizzo di questo nome a volte è un tentativo che il ristorante fa per far capire agli stranieri di cosa si tratta. Ad ogni modo personalmente non sono affatto d’accordo con il tradurre i nomi le specialità italiane.
Anche perché, badata bene, come dicevo nei supermercati strati potreste trovare qualche prodotto che ha esattamente questo nome: “parmesan“. Ebbene non si tratta effettivamente di Parmigiano Reggiano. Perché questo è il nome del vero parmigiano italiano. Bisogna aggiungere la parola Reggiano, che indica la regione da cui proviene, Reggio Emilia appunto, come vi diceva mia madre.
Erano in molti a sostenere che il nome “Parmesan” fosse generico e che non indicasse necessariamente solo il “Parmigiano Reggiano” ma un generico formaggio a pasta dura, Questo nome: “parmigiano reggiano“, aggiungendo quindi la parola “reggiano” è un nome protetto invece. Protetto giuridicamente quindi.
Si tratta di un prodotto DOP. Questa è la sigla del Parmigiano Reggiano: è un formaggio DOP, dove DOP significa “Denominazione di Origine Protetta“, una sigla simile alla IGT – Indicazione geografica tipica che abbiamo già visto parlando del Radicchio rosso.
Oggi dunque in Europa la scritta Parmesan non si può più usare, perché questo nome può indurre il consumatore a pensare che si tratti invece dello stesso “Parmigiano Reggiano” quando invece in realtà semplicemente si trattava di un formaggio a pasta dura, grattugiato o da grattugiare. Questo trucco in Europa non si può più usare dunque.
Attenzione però che in altri paesi come in America ad esempio potreste trovarvi davanti ad un Parmesan. Diffidate delle imitazioni (sono tantissime), anche perché se poi non vi piace ve la prendete con l’Italia!!
Mia madre vi ha anche detto che chi è intollerante al lattosio può stare tranquillo col Parmigiano. Il lattosio è lo zucchero contenuto naturalmente nel latte, naturalmente nel senso che non è aggiunto dall’uomo ma già si trova lì, per natura 🙂 .
L’assenza del lattosio vale comunque anche per tutti gli altri formaggi stagionati, “Grana Padano” incluso, molto diffuso anch’esso in Italia.
Per chi invece è allergico alle proteine del latte, cosa diversa rispetto all’intolleranza al lattosio, degli studi medici hanno mostrato come le persone non mostrino sintomi con una stagionatura superiore ai 30 mesi. Sembra che infatti più la stagionatura del Parmigiano è lunga e meno rischi si corrano per chi è allergico alle proteine del latte. Meglio quindi consumare un Parmigiano Reggiano molto vecchio, anche detto stravecchio, cioè stagionato 30 mesi o più. Ad ogni modo meglio chiedere ad uno specialista, non si sa mai. Alla prossima specialità italiana.
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