Ritrarre

Ritrarre (scarica audio)

episodio 1211

Trascrizione

Bentornati nella rubrica “due minuti con Italiano Semplicemente”.

Oggi parliamo del verbo ritrarre. In un episodio passato abbiamo appena accennato al senso di questo verbo. In quell’occasione spiegavo il verbo ritrarsi, oltre a ritroso e ritrosia.

Sul verbo ritrarre ho detto solamente che una delle cose che si possono ritrarre è la propria mano, ad esempio, quando non voglio stringere la mano ad una persona che ci sta antipatica: la ritraggo, cioè la tiro indietro, così come posso ritrarre lo sguardo, a magari per timidezza.

Oggi, invece, completiamo il discorso parlando di un altro grande significato del verbo ritrarre, quello legato alle immagini, alle fotografie e all’arte in generale. Non c’è nulla da tirare indietro in questo caso. Qui ritrarre ha un altro senso.

In questo senso, ritrarre significa raffigurare, cogliere con un’immagine, che sia fotografica o pittorica.

Somiglia molto a fotografare. Per questo diciamo, ad esempio:

In questa foto siamo ritratti io e mia madre.

Qui siamo ritratti significa semplicemente che appaia­mo nella foto, che l’immagine ci rappresenta. Nella foto appariamo io e mia madre.

Da questo uso deriva naturalmente la parola ritratto: il ritratto è l’immagine di una persona, solitamente il volto, realizzata da un pittore, da un fotografo o da un artista in generale. Un tempo erano quasi sempre dipinti; oggi possono essere foto, caricature, perfino ritratti digitali.

C’è chi ama ritrarre un paesaggio e chi ritrarre una scena in bianco e nero. I fotografi invece, ritraggono i paesaggi o ad esempio le attrici.

Ma c’è un’altra cosa interessante: il verbo ritrarsi, di cui abbiamo parlato la volta scorsa, può essere usato anche in senso riflessivo proprio per dire “farsi un ritratto”.

Su un sito leggo ad esempio:

Perché Arnold Böcklin si è ritratto insieme alla Morte che suona il violino?

Si tratta evidentemente di un autoritratto.

Non si tratta quindi solo di “tirarsi indietro”, ma anche, meno frequentemente, di rappresentarsi in un’immagine. Anche questo può essere ritrarsi.

Questo è solo uno dei significati del verbo ritrarre comunque. Ce ne sono altri e li vediamo in altri episodi.

Adesso ripassiamo un po’. È vicino il Natale quindi parliamo di questo. È Natale, non è vero? Potete parlare se volete degli addobbi natalizi. Scegliete voi comunque.

Marcelo: per essere Natale è Natale, ma a guerra ancora in corso, in Ucraina da qualche anno ce lo siamo dimenticato.

Julien: quanto agli addobbi, a me piacciono molto, soprattutto se illumati a dovere. Un po’ di luci ci vogliono, vivaddio.

Ulrike: in Italia gli addobbi sono diventati appannaggio dei più ricchi, però se sai cercare se ne trovano anche a buon mercato.

Carmen: al centro di Roma gli addobbi attirano un’orda di curiosi, a ragione direi. Al netto di qualche salasso per le tasche, in Germania si decora profusamente, ma con stile. Non ci sono santi: la finezza è d’obbligo.

Christophe: a casa mia mi sono accollato l’onere di fare l’albero di natale e il presepe. Mio figlio se n’è proprio fregato!

Hartmut: chiamalo fesso! È una faticaccia fare questi lavoretti per un giovane ragazzo.

José: che non abbia voglia di fare l’albero, ancora ancora lo posso capire, ma voglio sperare che almeno la notte di Natale l’abbia passata in famiglia.

L’italofonia e la pronuncia delle preposizioni apostrofate

L’italofonia e la pronuncia delle preposizioni apostrofate (scarica audio)

Trascrizione

PRONUNCIA DELL'ITALIANO

In questo episodio di Italiano Semplicemente voglio affrontare un problema comune degli stranieri non madrelingua: la pronuncia e la scrittura delle preposizioni con l’apostrofo, a cui abbiamo dedicato in passato anche due episodi “l’apostrofo nella lingua oitaliana: prima parte“, “seconda parte“). C’è anche un episodio per principianti nella rubrica “primi passi“.

Ho notato infatti che molti stranieri non madrelingua tendono a sbagliare sia la scrittura che la pronuncia in questi casi. Nel caso della scrittura, l’errore consiste spesso nel cambiare la preposizione, così ad esempio, “la casa dell’amico di Paolo” diventa “la casa del Amico di Paolo”, omettendo l’apostrofo, e cambiando la preposizione, che da “dello” diventa “del”. Lo stesso vale per all’, nell’, sull’, dall’. La pronuncia in questi casi non dovrebbe essere staccata, e infatti l’apostrofo si usa proprio per questo: per non staccare le due parole. Ad esempio:

  • Vado all’aeroporto.

  • Arrivo all’università.

  • Sono all’ingresso.

  • Mangiamo all’aperto.

  • Ci vediamo all’angolo.

  • Passo all’azione.

Allora oggi vi racconto un evento recente che riguarda qualcosa di molto “italiano” per cercare di correggere questo piccolo difetto. Con l’occasione ripassiamo anche altri episodi passati e facciamo degli esercizi di pronuncia.

Vi parlo della recente conferenza sull’Italofonia (attenzione, ho detto “sull’italofonia, e non sul italofonia”. (Ripeti dopo di me: conferenza sull’italofonia).

Bene, intanto che significa italofonia?

Italofonia significa “l’insieme delle persone e dei Paesi in cui si parla l’italiano”, sia come lingua madre sia come lingua straniera.

Si tratta della prima Conferenza Internazionale dell’Italofonia, durante la quale è stata istituita la Comunità dell’Italofonia, (Ripeti dopo di me: comunità dell’italofonia) con l’obiettivo di promuovere la lingua italiana nel mondo come lingua di dialogo, cultura e identità.

In occasione di questo evento, molti commentatori, da addetti ai lavori a cittadini, hanno sicuramente pensato all’uso della nostra lingua oggi (Ripeti dopo di me: hanno pensato all’uso della nostra lingua).

Non so in realtà se sia stato discusso anche della necessità di rafforzare lo studio e la cura dell’italiano, (Ripeti dopo di me: la cura dell’italiano). In particolare questo sarebbe stato utile per contrastare errori frequenti: dall’uso scorretto dell’apostrofo a imprecisioni lessicali (Ripeti dopo di me: dall’uso scorretto dell’apostrofo).

Di sicuro si è parlato dell’italiano come “lingua della pace” (Ripeti dopo di me: si è parlato dell’italiano)

Questa situazione appare ai miei occhi come una bella occasione per fare un personale “mea culpa” per non aver affrontato prima questo argomento e per riflettere su come si scrive e si parla correttamente la lingua italiana.

Mi raccomando, se non l’hai ancora fatto, di ripetere ad alta voce le frasi che di volta in volta ti propongo. In questo modo ti potrai accorgere nell’immediato di eventuali errori nella pronuncia (Ripeti dopo di me: nell’immediato).

Alla notizia di questa conferenza, mi sono detto: “Vada per l’impegno di valorizzare l’italiano”, perché credo che l’italofonia non sia soltanto una questione di orgoglio, ma anche di responsabilità.

All’occorrenza (Ripeti dopo di me: all’occorrenza) cioè quando qualcuno dei nostri amici all’estero mi chiederà come parlare “bene” l’italiano (Ripeti dopo di me: amici all’estero) non mi basterà proporre una parvenza di conoscenza solida: che me ne faccio di frasi preconfezionate se poi non si avverte la differenza tra “all’improvviso” e “al l’improvviso”? (Ripeti dopo di me: all’improvviso).

Invero, mi ritrovo a pensare che molti stranieri non madrelingua probabilmente siano in alto mare, perché ignorano che l’apostrofo non è un’opzione, ma una questione d’ortografia che può fare la differenza. Secondo un’indagine recente, quasi sette italiani su dieci commettono errori grammaticali (figuriamoci gli stranieri!), dall’apostrofo al congiuntivo, dalla punteggiatura alla concordanza (Ripeti dopo di me: dall’apostrofo al congiuntivo).

Così, all’indomani della conferenza, (Ripeti dopo di me: all’indomani della conferenza) ho deciso di farci un bell’episodio. Voglio metterci la faccia, mi sono detto, perché posso aiutare i non madrelingua a migliorare la pronuncia e a farli scrivere facendo meno errori possibili.

Voglio che quelle parole, quelle costruzioni, quelle preposizioni articolate suonino come musica all’orecchio di chi ascolta (Ripeti dopo di me: musica all’orecchio di chi ascolta).

E se qualcuno osa dire “questo non l’hai spiegato bene”, in futuro saprò rispondere con cognizione di causa.

Allora, bisogna dire anche la regola, anche se normalmente le regole non sono all’ordine del giorno in Italiano Semplicemente. (Ripeti dopo di me: non sono all’ordine del giorno).

Quando la preposizione semplice + un articolo determinativo si combina con un sostantivo o pronome che comincia per vocale, l’articolo si elide e l’apostrofo è obbligatorio: dell’italiano, all’occorrenza, dell’amore (Ripeti dopo di me: dell’italiano, all’occorrenza, dell’amore).

Per alcuni stranieri poi la capacità di pronunciare correttamente queste particolari forme è il proprio “tallone d’Achille” (Ripeti dopo di me: il tallone d’Achille). In questo caso si tratta di preposizione semplice apostrofata.

Allora, personalmente, vorrei che questo episodio, che parte da un evento reale, attuale, suoni come un “campanello d’allarme” (Ripeti dopo di me: campanello d’allarme), un invito a non dare per scontato l’italiano, a non ricorrere alle scorciatoie dell’approssimazione o della comodità (Ripeti dopo di me: le scorciatorie dell’approssimazione).

Spero che questo tipo di episodi vi faccia piacere e all’occorrenza, non mancherò dall’aggiungerne altri (Ripeti dopo di me: all’occorrenza) allargando via via l’orizzonte dell’apprendimento e dell’italofonia (Ripeti dopo di me: l’orizzonte dell’apprendimento e dell’italofonia).

Continuate ad esercitarvi, restando all’ascolto degli episodi di Italiano Semplicemente (Ripeti dopo di me: restando all’ascolto) perché dall’esperienza nasce sempre qualcosa (Ripeti dopo di me: dall’esperienza nasce sempre qualcosa), e così sull’onda dell’entusiasmo continueremo all’infinito (Ripeti dopo di me: sull’onda dell’entusiasmo continueremo all’infinito).

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A chi lo dici!

A chi lo dici!

episodio 1210

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Trascrizione

Bentornati nella rubrica “due minuti con Italiano Semplicemente”.

Oggi parliamo dell’espressione “A chi lo dici!” molto usata da tutti gli italiani di ogni età.

Avete notato il tono? In questo modo è chiaramente una esclamazione e non una domanda.

È una frase tipica dell’italiano colloquiale.

È molto breve, immediata, ed è perfetta per creare complicità con la persona con la quale si sta parlando.

Naturalmente “A chi lo dici!” è una risposta a una persona e più o meno significa:

“Lo so bene anche io!”.

Simile anche a “Sfondi una porta aperta!”, di cui ci siamo già occupati. La somiglianza in questo caso sta però solamente nel senso che anche questa crea complicità.

Il vero significato, quello più vicino è “hai ragione, ci sono passato anch’io.”

Non è dunque una vera domanda: la forma interrogativa è solo apparente. È una domanda retorica, se vogliamo essere precisi.

Ma quando si usa? Domanda lecita direi.

Si usa quando sentiamo qualcosa che conosciamo bene, qualcosa come un problema, un’esperienza avuta, positiva o negativa, perché anch’io ho avuto quel problema, anch’io ho avuto quell’esperienza di cui stai parlando, anch’io ci sono passato, e in questo modo si esprime complicità.

È l’uso più frequente quando vogliamo mostrare solidarietà o vicinanza all’altra persona.

Esempio:

Sono stanchissimo.

A chi lo dici! Sto per addormentarmi in piedi.

Oppure:

Non vedo l’ora che arrivi il weekend.

A chi lo dici! Questa settimana sembra infinita.

Posso usarla anche per rispondere a un’osservazione ovvia con tono ironico, sempre per manifestare accordo.

Es:

Il caffè italiano è il migliore.

A chi lo dici!

Cioè: “È evidente!”

Oppure:

Bisognerebbe fare più esercizio per stare in forma.

A chi lo dici!

Sottinteso: “Lo so, lo so…”

Attenzione, molto spesso è come dire: “Lo dici a me?”

Questa variante però, può anche avere tutt’altro significato cioè
“Stai parlando proprio con me? Sei sicuro di non aver sbagliato persona?”

Può dunque esprimere una polemica, come a dire: io sono l’ultima persona a cui puoi dire questa cosa.

Es:

Sei sempre in ritardo.

Lo dici a me?

Simile, spesso, a frasi come “da che pulpito viene la predica“, che abbiamo già incontrato nell’episodio dedicato alla predica a predicare e al predicozzo.

“A chi lo dici!”, invece, esprime sempre accordo, non polemica.

In caso di polemica sarebbe, casomai:

A chi lo hai detto?

Nel senso di: ripeti ciò che hai detto se hai il coraggio.

C’è un senso di sfida anche. Poi cambia anche il tono, ovviamente, tra polemica e empatia.

Un’altra alternativa a “a chi lo dici!” e “eh, sapessi io!”.

In queste occasioni si può usare anche una parolina magica a voi già nota: figurati! Questo è un uso particolare di “figurati”, ed anche non molto frequente a dire il vero. In passato questa parola l’abbiamo incontrata come alternativa a Grazie o “che sarà mai“. Non è questo il caso, in cui invece voglio confermare le parole del nostro interlocutore, dicendo che anche io so di cosa parla.

Ultimo esempio:

Gli italiani parlano velocissimo! Io ho tante difficoltà a capire tutto.

A chi lo dici! Anche noi che viviamo qui da anni abbiamo problemi.

E poi usate un sacco di espressioni!

“non dirlo a me! È più forte di noi.”

Ecco, questa è ancora un’altra modalità molto simile, come “lo dici a me?”.

Va bene adesso passiamo al ripasso del giorno.

Marcelo: Ciao amici!… Apro le danze io! Dopo aver dato una sbirciata ai giornali, la notizia del piano di pace proposto da Trump per la Russia e l’Ucraina mi ha preoccupato moltissimo

Estelle: a chi lo dici! Anche se vivo agli antipodi e sembro essere lontano da tutto, la guerra porta inconvenienti ovunque.

Karen: e poi appare evidente che ci troviamo in un vicolo cieco!

Angela: Sono d’accordo con te e credo che la UE sia costretta a metterci la faccia adesso, abbandonando quell’atteggiamento all’acqua di rose che ha tenuto finora.

Edita: Sono più di tre anni che portiamo questo fardello! Sarà la volta buona?

Carmen: Eh sì… La UE sembra aver finito di orbitare attorno agli Stati Uniti sulla difesa, e da qualche tempo a questa parte sta abbracciando l’idea di prendere le redini per trovare un piano alternativo, al fine di evitare il rischio che la mediazione americana ponga condizioni inaccettabili per Kiev.

José: Finora tutti abbiamo pagato dazio con questa guerra!

Julien: Il prezzo dell’energia, l’aumento dei biglietti aerei, gli alimenti… insomma tutto! E sembra acqua fresca per i politici!

Anne Marie: infine, ma non per importanza, una UE unita, senza fazioni e frange, può diventare l’elemento cardine per una pace giusta.

Christophe: Che Dio ce la mandi buona!

Avulso

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episodio 1209

Trascrizione

Giovanni:

Bentornati nella rubrica “due minuti con Italiano Semplicemente”.
Oggi parliamo dell’aggettivo avulso. Per fare questo ho incaricato tre membri dell’associazione Italiano Semplicemente; per la precisione Estelle, Marcelo e Khaled, che seppur vivendo chi in Francia, chi in Uruguay, chi in Egitto, si sono organizzati e mi hanno proposto un testo per l’episodio di oggi.

Marcelo: Bella proposta quella di Gianni di metterci alla prova nello scrivere un episodio di due minuti!

Estelle: Dopo aver cercato un modus operandi, ci siamo messi all’opera: un lavoro di concerto. Pian piano, le ricerche si sono sviluppate e le idee sono germogliare.

Khaled: Niente di eclatante, però pian piano siamo venuti a capo dell’esercizio.
Senza pretenziosità ma con fierezza, presentiamo questo lavoro: un bel modo di alzare l’asticella dell’apprendimento della lingua italiana.

Giovanni: Iniziamo dunque.

Gianni, un dolce bambino di otto anni, pedalava come un supereroe… diciamo come un supereroe alle prime armi, finché il marciapiede non decise di tradirlo.

Questa storiella si conclude con un sorriso storto, un dente avulso e zero dignità!

L’avulsione dentale si verifica quando un dente viene completamente espulso dal suo alveolo: si ritrova staccato, strappato dalla gengiva.

Che brutta immagine vero?

Avulso è proprio la parola del giorno. Deriva dal latino avellĕre, composto da a- (via) e vellĕre (strappare), cioè “strappare via”.

Avete presente quei pezzi di legno sulle sponde dei fiumi, depositati in seguito a eventi meteorologici, mareggiate o piene? Possiamo chiamarli “legname avulso”.

C’è da dire però che nessun italiano o quasi usa la parola avulso associandolo al legno o ai denti. L’aggettivo si usa praticamente sempre in senso immateriale. A meno che non si parli di persone.

In poche parole, un elemento avulso è un elemento isolato da un gruppo, un contesto oppure dalla società.

È una parola ricercata, certo, ma se volete impressionare qualche italiano all’ascolto, prima o poi vi capiterà l’occasione giusta per usarla.
Vediamo un altro uso noto agli appassionati di calcio.

Il papà di Gianni, per consolarlo, potrebbe dirgli: Gianni, andiamo allo stadio a vedere la Roma, la nostra squadra del cuore… pare che se vinciamo saremo primi nella classifica avulsa.

Ma papà, cos’è una classifica avulsa?
Domanda legittima direi!

Risposta:

Quando più squadre hanno lo stesso punteggio in campionato, si confrontano i risultati degli scontri diretti.

Chi ha vinto più partite tra quelle squadre sta avanti in classifica!

Praticamente per decidere quale squadra merita di stare avanti in classifica si considerano solamente le partite giocate tra quelle sole squadre.

Evviva, papà! La classifica è nostra, abbiamo vinto e siamo avanti nella classifica avulsa! Dobbiamo festeggiare!

Ricordate: avulso significa “staccato”, “isolato” da qualcosa.

Per esempio:

Il direttore, durante il suo discorso per l’anniversario dell’azienda, ha raccontato una barzelletta completamente avulsa dal tema della serata.

Oppure:

A volte riceviamo critiche per frasi dette senza cattive intenzioni. In quei casi possiamo dire che si tratta di una critica avulsa, cioè fuori contesto.

Es:

Ho detto che Maria è molto efficiente sul lavoro… e anche un vero schianto!
Qualche giorno dopo ho ricevuto una critica per quella frase. Ma era una critica avulsa: era stata estrapolata dal contesto.

Un altro esempio:

Un membro del gruppo IS, dopo un lungo periodo di pausa, potrebbe sentirsi un po’ avulso dall’attualità:

Con tutto il lavoro che avevo, mi ero allontanato dalla chat del gruppo… ora che sono tornato, mi sento un po’ avulso dal gruppo, con tutto quello che è successo senza di me!

E infine, avulso può anche descrivere una persona distratta o assente, magari persa nei propri pensieri, come se fosse scollegata da ciò che la circonda.

Es:

Oggi mi sento un po’ avulso scusate, sono poco concentrato.

In sintesi, avulso si usa per indicare qualcosa (o qualcuno) che è separato, isolato, fuori contesto: una frase in un discorso, un commento fuori luogo, una persona che si sente esclusa da un gruppo o distante dalla realtà per distrazione o preoccupazione.

È auspicabile che nessuno si senta mai avulso dal gruppo, né che perda un dente per imparare una nuova parola!

Per concludere, attenzione alla pronuncia: la parola è avùlso, con l’accento sulla seconda sillaba, non àvulso.

Ripetete dopo di me: avùlso, avùlsa.

E adesso vediamo un ripasso delle espressioni già imparate. Per non sentirsi avulsi dal gruppo, parecipate al ripasso.

Christophe: Ho letto con attenzione il documento. Il capo, a ragione, dice che l’ultimo paragrafo sembra avulso dal contesto generale del rapporto; poco ci manca – ah aggiunto – che trascenda proprio il tema principale.

Marcelo: Sfido io! Quell’introduzione di dati non richiesti, inserita deliberatamente lì, risulta così avulsa da rendere il documento discutibile.

Estelle: Credo che dovremmo rendere edotto il team che ogni elemento avulso rischia di far passare il segno, anche perché non rispetta la sequenza logica del discorso. Questo è il minimo sindacale per un lavoro consono alle aspettative.

avulso

Che io ricordi

Che io ricordi (scarica audio)

episodio 1208

Trascrizione

Bentornati nella rubrica “due minuti con Italiano Semplicemente”.
Oggi parliamo dell’espressione “che io ricordi” e voglio dedicare questo episodio alla nostra Marguerite, che si trova in ospedale. Tanti auguri Marguerite! Sei sempre nei miei pensieri.

A proposito di ricordi, abbiamo trattato in passato “che io/tu sappia, e per quanto io ricordi, non  avevo accennato, in quella occasione, a questa modalità simile: “che io ricordi”, o “che tu ricordi” eccetera.

È simile perché inizia sempre con “che”, e si usa sempre il congiuntivo. Cambia solamente il verbo.

“Che io ricordi” è un’espressione simile a “che io sappia”, ma non proprio uguale, perché fa appello alla memoria personale e non alla conoscenza.

Quindi è simile anche a “per quanto ne so” ma in realtà possiamo sostituirla solamente con “secondo la mia memoria“, o, come ho fatto all’inizio, con “per quanto ricordi” e anche a “se la memoria non mi inganna“.

È utilizzata per introdurre un’affermazione basata sulla propria memoria, suggerendo che potrebbero esserci altre persone con ricordi diversi, o che la mia memoria si sbagli.

Potrebbe quindi darsi che io mi sbagli.

Quindi il significato è: “Per quanto io riesca a ricordare” oppure “a mia memoria“. Sì, si dice anche così: “a mia memoria“.

Si usa per dare un’opinione basata su ciò che una persona ricorda, ammettendo implicitamente che la propria memoria potrebbe non essere completa o accurata.

Esempio:

Che io ricordi, non siamo mai stati in quel ristorante, ma potrei sbagliarmi.

Analogamante a “che io sappia”, tutti gli italiani usano il congiuntivo in questo caso. È veramente raro incontrare “che io so” e “che io ricordo“.

Questo però accade solamente se la frase contiene un dubbio. Ecco, in questi casi, cioè quando esiste un dubbio, la frase non ha una premessa, ed inizia proprio così “che io ricordi“.

Se invece dico ad esempio:

Quella vicenda è la cosa più vecchia che io ricordo nella mia vita.

In questo secondo caso la frase non inizia con “che io ricordi”, ma il verbo ricordare si riferisce direttamente a un fatto preciso del passato.

Qui non c’è dubbio, non c’è incertezza: sto semplicemente raccontando qualcosa che effettivamente ricordo. In questi casi, l’uso dell’indicativo rafforza l’idea che non si abbiano dubbi. Non è obbligatorio, ma di sicuro nella realtà dei fatti si fa in questo modo.

Quindi, quando “che io ricordi” si trova all’inizio della frase, ha una sfumatura dubitativa, quasi come dire: “per quanto mi ricordi”, o “a memoria mia”.

Quando invece si trova all’interno di una frase più lunga, come “la cosa più vecchia che io ricordo”, il significato è letterale e il verbo si usa spesso all’indicativo, non al congiuntivo.

Facciamo qualche altro esempio:

Che io ricordi, Maria non è mai venuta a trovarci.

Cioè: forse sbaglio, ma non mi pare che sia mai successo.

Questo è un profumo che io ricordo fin da bambino.

Cioè: ne sono certo, fa parte dei miei ricordi d’infanzia.

Come vedete, basta una piccola variazione per cambiare il senso.

Un’ultima curiosità: a volte si sente dire anche “per quanto ne ricordi” (analogamente a “per quanto ne sappia”) ma questa forma è meno comune e un po’ più letteraria. Più formalmente si dice anche “salvo errore/i”. Un’ultima alternativa è “stando a quanto ricordo” o “stando alla mia memoria”.

Adesso, come facciamo sempre nella rubrica “due minuti con italiano semplicemente”, tocca al ripasso degli episodi precedenti. Cominciano a diventare parecchi questi episodi, e sapete che molto spesso capita che io stesso non ricordi di aver trattato un certo argomento. Meno male che c’è qualche membro dell’associazione che ha la memoria più lunga della mia. Adesso ripassiamo quindi qualche episodio passato, parlando di vacanze natalizie in Italia.

Marcelo: quest’anno vorrei concedermi una scorpacciata di paesaggi innevati in Trentino-Alto Adige.

Ulrike: bello, ma è proibitivo per il portafoglio.

Anne Marie: a me l’entità della spesa non spaventa. Piuttosto mi manca la voglia!

Karin: Certo, un po’ il freddo dà fastidio anche a me, ma una buona volta dovrei smettere di rimandare e prenotare. La mia ritrosia mi blocca però.

Estelle:  Io resto fedele al Lazio, che sarà pure poco appetibile d’inverno, anche perché il traffico è un delirio a Roma, ma la capitale resta teatro di un’atmosfera natalizia ineguagliabile.

Christophe: Io, come al solito, metto sul piatto la Sicilia. La gente è affabile e molto più avvezza all’ospitalità rispetto al nord.

Carmen: ne convengo, e se qualcuno osa biasimare questa scelta, apriti cielo! Non sento ragioni.

Andrè: Invero, c’è un che di profondamente propizio in quell’isola. E poi, cosa non si fa per un cannolo degno di questo nome!

Levare le tende

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episodio 1207

Trascrizione

Bentornati nella rubrica “due minuti con Italiano Semplicemente”.
Oggi parliamo dell’espressione “levare le tende”.

Partiamo dal verbo levare, che significa togliere, ma in questo caso è simile anche sgomberare e persino a smontare, visto che parliamo di tende.

Per tende intendo quelle del campeggio, dove si può dormire, e non le tende della finestra, che si usano per la privacy o per riparare dal sole.

Un tempo, quando i soldati vivevano negli accampamenti, smontare la tenda significava prepararsi a partire. Era il segnale che la missione in quel luogo era finita. Oggi, nessuno vive più in tenda, o quasi, ma l’espressione è rimasta viva nel linguaggio quotidiano, anche se in senso figurato.

Ad esempio, siete a una festa noiosa, la musica è alta, la gente parla di calcio e voi non capite nulla.

A quel punto, qualcuno vi guarda e dice:

Io quasi quasi levo le tende, va’!

Vuol dire semplicemente: me ne vado, me ne torno a casa, me la squaglio.

Oppure, pensate a un coinquilino che non paga mai l’affitto. Il padrone di casa lo avvisa:

Se non paghi entro domani, ti tocca levare le tende.

In questo caso, “levare le tende” è un modo colorito ma chiaro per dire sloggiare, andarsene definitivamente, liberare il campo, sgommare, squagliarsela. La scelta dipende un po’ dall’occasione.

E poi ci sono i casi più ironici. Per esempio, quando un politico perde le elezioni:

Dopo la sconfitta, ha levato le tende e non si è più fatto vedere in televisione.

O quando un collega viene trasferito:

Ha levato le tende e si è spostato al nord, dicono per amore.

Persino in famiglia si usa. Se la suocera è in visita da una settimana e finalmente riparte, il genero può dire, magari sottovoce:

Era ora che levasse le tende!

Naturalmente, in tono scherzoso, o almeno si spera!

A volte, però, l’espressione può essere usata in senso poetico o malinconico:

Finita l’estate, i turisti levano le tende, e il paese torna silenzioso.

Insomma, “levare le tende” è un modo simpatico, a volte ironico, per dire che qualcuno se ne va, lascia un luogo, magari per chiudere una fase della sua vita.

Un consiglio: non usatelo in contesti troppo formali. Davanti a un direttore, meglio dire:

Mi congedo.

e non:

Levo le tende.

Adesso ripassiamo qualche espressione passata.

Marcelo: apro le danze io! Si dà il caso che oggi 31 ottobre si celebri Halloween, una festa di origine celtiche a quanto leggo sul web.
Detto ciò, devo aggiungere che nel contesto del cristianessimo, si collega alla vigilia della festa di Ognissanti del 1º novembre!
Ci sarà qualcosa in comune? Che ne dite?

Estelle: Eh già, e pensare che da qualche anno a questa parte anche in Italia si festeggia alla grande! Dolcetti, travestimenti, zucche ovunque… insomma, una vera americanata, ma divertente.

Anne Marie: Oggi è stato un continuo andirivieni di bambini mascherati che bussano alle porte. Che bello!

Karin: Beh, di qui a poco arriverà pure Natale, e allora tra panettoni e luminarie, non ci sarà più tregua!

Julien: Io comunque resto un po’ scetticopiù che altro perché mi sembra tutto molto commerciale, ecco.

Edita: In compenso, devo dire che certi trucchi e maschere sono squisitamente artistiche: c’è chi ha davvero stoffa!

Fare pelo e contropelo

Fare pelo e contropelo (scarica audio)

episodio 1206

Trascrizione

Bentornati nella rubrica “due minuti con Italiano Semplicemente”.
Oggi parliamo dell’espressione “fare pelo e contropelo

Partiamo dal senso proprio.
Quando ci si fa la barba, noi maschietti, possiamo decidere come passare il rasoio. In quale verso intendo.

Sapete bene che il pelo cresce in una direzione precisa.

Cambia un po’ da persona a persona direi.

Radersi “a pelo” significa passare il rasoio nel verso del pelo, cioè nella stessa direzione in cui crescono i peli. È un modo più delicato e meno irritante per la pelle.

Radersi “a contropelo”, invece, vuol dire passare il rasoio in direzione opposta alla crescita del pelo.

Bisogna andare “contro” la direzione del pelo.

Il risultato è una rasatura più profonda, ma anche più aggressiva. Potrebbe generare irritazioni ed anche piccole ferite se non si sta attenti.

Da questa immagine concreta nasce il senso figurato dell’espressione.

Dire che si fa pelo e contropelo a una persona (o anche a una azienda o organizzazione) significa analizzarla o anche interrogarla a fondo, in tutti i dettagli, senza lasciar correre nulla.

Si può usare, ad esempio, per dire che un giornalista ha messo qualcuno “sotto torchio” , gli ha fatto mille domande, oppure che un investigatore ha esaminato un caso minuziosamente, da ogni angolazione.

Ad esempio:

Il revisore ha passato i conti dell’azienda. Gli ha fatto pelo e contropelo.

L’intervistatore ha fatto pelo e contropelo al politico su tutte le questioni più scomode.

Non è mai molto piacevole quando qualcuno ti fa pelo e contropelo. Proprio come può essere una rasatura a fondo. Può irritare, infastidire, indispettire, far arrabbiare.

In definitiva, usare questa espressione informale vuol dire non accontentarsi della superficie, ma andare a fondo, anche a costo di dare un po’ fastidio.

Adesso spero non vi irritiate se vi chiedo, cari membri, di fare un bel ripasso coi fiocchi.

Ripasso a cura dei membri dell’associazione Italiano Semplicemente.

Julien: Un ripasso vuoi? Reduce da una notte in bianco, non me la sento proprio. Sai che c’è? Adesso mi metto su una sdraio e schiaccio un pisolino pomeridiano. Spero che questo rifiuto non ti faccia prendere i 5 minuti.

Estelle: Non è questione di pudicizia, ma non faccio ripassi da illo tempore. Per mancanza di allenamento temo di cacciarmi inun ginepraio e non vorrei scadere nella vostra stima.

Marcelo: Invece io, dopo la mia passeggiata e l’allenamento in palestra sono completamente Kappaò! Nonostante questo, la sfida di fare un ripasso è sempre un invito da non sprecare, e mi desta la voglia di fare del mio meglio. E fu così che, via via, il ripasso prese forma! Visto?
Detto ciò, vi saluto con un buffetto virtuale!

Sai che c’è?

Sai che c’è? (scarica audio)

episodio 1205

Trascrizione

Cari amici di Italiano Semplicemente, oggi vi spiego un’espressione italiana molto usata da tutti, ma proprio da tutti gli italiani, ma la cosa strana è che non trovate, ad oggi, una spiegazione completa da nessuna parte. Non c’è dizionario o sito web che abbia mai spiegato l’espressione “sai che c’è?”, almeno non in tutte le sfumature che vedremo oggi.

Dunque, l’espressione “sai che c’è” e si usa soprattutto in contesti colloquiali.

Può avere più sfumature a seconda del tono e della situazione, ma in generale serve per varie situazioni. Direi tre situazioni diverse.

Ad esempio per introdurre una decisione improvvisa o definitiva.

È come dire “in fondo… sai che ti dico?”, “e allora facciamo così”.

Sai che c’è? Non ci vado più, ho cambiato idea.

Sai che c’è? Mi prendo una pausa, non ne posso più.

Qui dà l’idea di una presa di posizione spesso dopo un’esitazione.

Si usa anche per sottolineare qualcosa di sorprendente o inaspettato,come “indovina un po’” o “vuoi sapere la verità?”.

Sai che c’è? Alla fine aveva ragione lui.

Sai che c’è? Mi piace davvero questo lavoro.

Qui serve a dare enfasi, quasi a preparare l’altro a una rivelazione.

Una terza situazione è quando siete polemici o ironici. In questi casi può accompagnare una frase in cui si esprime fastidio o rassegnazione.

Sai che c’è? Fai come ti pare!

Sai che c’è? Non me ne importa nulla.

In questo caso equivale a “a dire il vero…” oppure “tanto vale…”.

Sono possibili anche mix tra le tre situazioni. Molto spesso infatti siete stufi di una situazione pesante, noiosa e annunciate una vostra decisione con tono polemico.

Sai che c’è? È che sono proprio stufo e adesso vado a vivere da solo. Sono proprio stufo di discutere tutti i giorni con i compagni di università su quanto tempo si può stare In bagno!

Ah, quasi dimenticavo di dirvi che se si parla con più persone si può anche dire: “sapete che c’è?”. Stessi utilizzi.

Avrete capito che di solito non si usa come domanda vera (“Sai che c’è?” “Sai quale fatto c’è?”), ma come frase fissa introduttiva, quasi come intercalare. È dunque una domanda retorica, quantomeno nella maggior parte dei casi.

Non serve pertanto per ottenere una risposta (nessuno ti dirà “no, non lo so, che c’è?”), ma per introdurre un pensiero, una decisione o una presa di posizione. Spesso si pronuncia con tono deciso, risoluto, o anche arrabbiato.

Funziona un po’ come una frase fatta di apertura, che cattura l’attenzione e prepara a quello che segue.

Sapete che c’è? Me ne vado!

Cioè: non chiedo all’altro o agli altri di spiegarmi “che cosa c’è”, sto solo annunciando una decisione.

Invece, usata alla lettera (Sai che c’è? Nel senso di “Sai che cosa è successo?”), esiste, si può usare anche così, ma è molto meno comune, più neutra e di sicuro meno espressiva. Poi il tono da usare in questo caso è diverso, più pacato e soprattutto c’è il tono interrogativo.

Andiamo al cinema stasera. Sapete che c’è?

Va bene, adesso, prima di ripassare un po’ le espressioni già spiegate, ricordo a tutti i visitatori che possono diventare membri di Italiano semplicemente, e inn questo modo possiamo discutere insieme sul gruppo WhatsApp, fare domande e, di tanto in tanto, viaggiare insieme ad altri membri in Italia in incontri organizzati dal sottoscritto.

Ripasso in preparazione a cura dei membri dell’associazione

Christophe: ciao ragazzi, vi scrivo velocemente perché ho una riunione. Mi sono fiondato seduta stante in questa riunione perché mi pareva impellente, ma ho la sensazione che il progetto faccia acqua da tutte le parti.

Marcelo: Non posso che darti ragione: a differenza di altri lavori, questo sembra un caso a sé stante e mi pare abbastanza inutile.

Ulrike: Finora comunque tutti gli incontri sono stati solo un pannicello caldo. La crisi delle vendite sta persino peggiorando.

Hartmut: Casomai, la butto lì, possiamo ricominciare ex novo, rivedendo tutto di sana pianta, invece di accavallare idee che non stanno in piedi.

Anne Marie: Con ogni probabilità, però, iniziare tutto daccapo richiederà un dispendio enorme di energie: non so se ne varrà la pena.

Karin: Stante la situazione attuale, già gravosa di suo, non resta che rischiare. Cerchiamo almeno di ridurre il progetto ai minimi termini.

Carmen: E allora, sapete che c’è? Delle due l’una: o ci buttiamo a capofitto e proviamo a salvarlo, oppure accettiamo la disfatta e la chiudiamo qui.

Prendere i cinque minuti

Prendere i cinque minuti (scarica audio)

episodio 1204

Trascrizione

Cari amici di Italiano Semplicemente, oggi voglio parlarvi di cosa accade quando prendono (o vengono) i cinque minuti.

È un altro modo interessante di utilizzare il verbo prendere in modo figurato.

Non c’è nessuno qui che “prende” fisicamente i cinque minuti, chiaramente. Anche perché il tempo è intangibile. Non si può prendere; non si può afferrare fisicamente. Ma d’altronde, il verbo prendere sappiamo che si usa spessissimo in senso figurato. Questo è uno dei tanti casi.

L’espressione italiana “prendere i cinque minuti” significa avere un improvviso scatto d’ira, perdere la pazienza, compiere un gesto impulsivo, senza pensarci troppo. Di questa espressione non ne abbiamo mai parlato finora, neanche in episodi come “mille modi per arrabbiarsi” o quello dedicato ai verbi incazzarsi e scazzarsi.

Si usa in questo modo:

Mi prendono i cinque minuti (a me).

Ti prendono i cinque minuti (a te).

Gli/le prendono i cinque minuti (a lui/lei).

Ci prendono i cinque minuti (a noi)

Vi prendono i cinque minuti (a loro)

Gli prendono i cinque minuti (a loro, sia maschile che femminile).

Non si dice semplicemente “prendono i cinque minuti” senza specificare chi: bisogna indicare il soggetto a cui accade.

A meno che non diciate frasi di questo tipo:

Quando prendono i cinque minuti possono accadere cose pericolose.

In questo caso parlo in generale. E’ come dire: quando ad una persona prendono i cinque minuti…

Notate che si dice “i cinque minuti” e non solamente “cinque minuti”, come si fa solitamente col tempo (es: appena ho cinque minuti finirò quel lavoro).

Questi infatti sono dei particolari cinque minuti, e per questo ci vuole l’articolo.

È un’espressione informale, colloquiale, usata nella lingua di tutti i giorni. Non è adatta a situazioni formali, a testi scritti ufficiali o a contesti professionali, dove si preferiscono giri di parole come “ho perso la calma” o “ho reagito impulsivamente”.

Es:

Ieri in ufficio mi sono presi i cinque minuti e ho detto tutto quello che pensavo al capo.

Ogni volta che sento quella canzone, mi prendono i cinque minuti e cambio subito stazione.

Stavo cucinando tranquillo, poi, dall’odore di bruciato, mi sono presi i cinque minuti e ho buttato via tutto.

Quando mi chiamano con i call center, mi prendono sempre i cinque minuti e riattacco bruscamente.

Attenzione ad usare il verbo essere al passato: mi sono presi, ti sono presi, gli/le sono presi, eccetera.

Espressioni simili sono:

Perdere le staffe” (più neutra, usata anche in contesti semi-formali).

“Andare in escandescenze” (più forte, più letterario o burocratico).

Sbroccare” (molto colloquiale, gergale).

Uscire dai gangheri” (espressione tradizionale).

Saltare i nervi” (familiare).

Adesso immaginiamo alcune situazioni in cui possono prendere i cinque minuti e ripassiamo qualche espressione passata.

Hartmut: Mi sono messo a scrivere la relazione e il PC si è impallato di punto in bianco: la misura è colma: mi succede ogni due per tre e stavolta mi prendono i cinque minuti sul serio!

Marcelo: Eh, o così o pomì: o ti armi di pazienza e cerchi di destreggiarti, oppure butti tutto all’aria; ma non fare che gli istinti prendano il sopravvento.

Edita: Guarda che si dà il caso che* anch’io oggi sia indisposta: se il capo mi fa una domanda fuori luogo , giuro che rompo gli indugi e stavolta è la volta buona che rispondo a tono!

Ulrike: Io invece non vedo perché dovrei tener fede* a scadenze impossibili: vuoi che non mi vengano i cinque minuti se vedo gli altri cincischiare e io do sempre fondo alle mie energie in modo indefesso?

Christophe: Ragazzi, quanto a me, stamattina mi hanno cazziato davanti a tutti e stava lì lì per darmi di volta il cervello pensando a tutto il lavoro che ho fatto invano.

Angela: Ma bisogna stare attenti! Qui ci sono annessi e connessi che nessuno considera quando si perde la pazienza: tant’è vero che ci sono già cascata una volta!

Anne Marie: Io so la soluzione! Si finisce sempre per scervellarsi, ma ho trovato come tenere a bada i miei cinque minuti! Quando mi prendono i cinque minuti, respiro, conto fino a dieci e alla fine non dico nulla… morale della favola: evito discussioni inutili e mi salvo la giornata!

Anna: Soluzione singolare direi! io invece accendo la moka e mi preparo un caffè: alla fin fine la caffeina è più innocua di una litigata!

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Ritroso, ritrarsi, ritrosia

Ritroso, ritrarsi, ritrosia (scarica audio)

episodio 1203

Trascrizione

ritrosia, ritroso, ritrarsi

Cari amici di Italiano Semplicemente, oggi vi voglio parlare della ritrosia.

Bel termine vero? È una caratteristica delle persone. Esistono infatti persone che a volte si mostrano ritrose verso qualcosa. Cioè?

Quando diciamo che una persona è ritrosa (se donna) o ritroso (se uomo), stiamo parlando di qualcuno che tende a tirarsi indietro, cioè a ritrarsi, mostrando timidezza, pudore o anche una certa resistenza nell’esporsi, soprattutto sul piano dei sentimenti e delle relazioni. Attenzione alla differenza tra ritirarsi e ritrarsi.

Il verbo ritrarsi infatti significa proprio “spostarsi all’indietro, allontanarsi da qualcosa o da qualcuno”.

Si può anche ritrarre la propria mano, quando ad esempio non voglio stringere la mano ad una persona che ci sta antipatica. Ma ritrarsi è riflessivo.

In senso figurato ritrarsi vuol dire non lasciarsi coinvolgere, non esporsi troppo.

Non è un termine che si usa molto spesso nella lingua parlata comune, e proprio per questo ha un sapore un po’ elegante, letterario.

Se dico: “Maria è una ragazza ritrosa”, intendo dire che non ama mettersi al centro dell’attenzione, tende a ritrarsi davanti agli sguardi, è un po’ riservata, forse anche pudica. Della puficizia parliamo casomai in un prossimo episodio.

Oppure: “Lui è sempre stato ritroso nel manifestare i suoi sentimenti”.

Quindi non è che non li abbia, i sentimenti, ma tende a ritrarsi, a non mostrarli apertamente. Attenzione, è lui che si ritrae, non sono i sentimenti ad essere ritratti.

Ritrarsi è abbastanza simile a essere restio, ma mentre essere restio si riferisce ad una azione che si fatica a fare, perché diffidenti, preoccupati o anche per carattere, essere ritroso si riferisce alla natura della persona, che tende a ritrarsi, a non esporsi.

Da qui nasce il sostantivo ritrosia, che indica proprio questo atteggiamento: la timidezza, la riservatezza o la riluttanza a lasciarsi andare.

Esempio: “Con molta ritrosia accettò l’invito a parlare in pubblico”.

Dunque questa persona si è mostrata ritrosa quando si trattò di parlare in pubblico.

Oppure: “Superata la sua naturale ritrosia, Gianni iniziò a raccontare la sua storia”.

Inizialmente è stato ritroso, poi Gianni ha evidentemente superato questa sua naturale ritrosia.

Attenzione: la ritrosia non va confusa con la semplice timidezza, perché la ritrosia può avere anche un lato più complesso. A volte non è soltanto insicurezza, ma anche pudore, vergogna, o persino una forma di orgoglio che trattiene. È il riflesso, potremmo dire, del ritrarsi non solo fisicamente, ma anche emotivamente.

Immaginate una persona che non vuole sembrare troppo disponibile o troppo audace: non per paura, ma per decoro, per misura. Quella è ritrosia.

Quindi possiamo dire che ci sono alcuni sinonimi parziali,come riservatezza, pudore, timidezza.

I termini contrari sono invece: spigliatezza, sfrontatezza, sfacciataggine, disinvoltura.

A questo punto vi ricordo anche dell’esistenza della locuzione “a ritroso”, di cui ci siamo già occupati. Non descrive un carattere ma un movimento o un procedimento all’indietro.

Ad esempio “camminare a ritroso” vuol dire camminare all’indietro.

Figurativamente invece possiamo usare l’espressione “Ragionare a ritroso”, che significa partire dalla fine e tornare indietro, ripercorrere i passaggi in senso inverso.

Oppure: “Guardando a ritroso nella sua vita, Gianni si accorse di quanto era cambiato”.

Vediamo che il legame con ritrarsi e con l’aggettivo ritroso è chiaro: sempre qualcosa che non procede in avanti, ma che arretra o si richiude.

Esempi finali:

“Si mostrò ritroso di fronte a quell’abbraccio improvviso” vuol dire che si ritrasse, un po’ sorpreso, un po’ imbarazzato.

“La sua ritrosia era evidente, ma nascondeva una grande dolcezza”.

“Camminava a ritroso per non perdere di vista i bambini che lo seguivano”.

“Ripensando a ritroso agli ultimi mesi, capì dove aveva sbagliato”.

Adesso guardiamoci ancora indietro e andiamo a ritroso a ripercorrere alcuni episodi passati.

Lucia: Avete visto Giovanni? Ogni volta che qualcuno prova a presentargli una persona per farlo fidanzare, lui va in bambola e, anziché buttarsi, mostra una ritrosia che rasenta il patologico!

Ulrike: C’era da aspettarselo: con la sua nomea di tipo titubante, non poteva che rifugiarsi dietro una sequela di scuse.

Carmen: Questa mi giunge nuova, perché pensavo solo fosse un po’ timido, non così riluttante da non sentire ragioni in merito.

Anne Marie: Suvvia, una buona volta dovrebbe lasciarsi andare, altrimenti rischia di toccare il fondo del barile delle occasioni mancate.

Marcelo: Io direi che gli converrebbe smettere di edulcorare la sua condizione: gli appuntamenti non sono proibitivi, anzi potrebbero essere propedeutici a un po’ di felicità.

Estelle: Finora ha sempre preferito attendere la manna dal cielo, ma a forza di farlo gli si sta ritorcendo contro.

Karin: Invero, più che un difetto è diventato un vero e proprio spauracchio: non gli sfiora neanche l’idea di fidarsi o confidarsi con qualcuno a fini sentimentali. La sua pasata esperienza ha lasciato evidenti strascichi!

Julien: vabbè dai, diamogli un’ultima occasione. Presentiamogli Margherita. Se rifiuta anche lei, che vada a farsi friggere!

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