580 Neanche… che….

Neanche… che…. (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: lo so cosa state pensando. State pensando che cosa ci sarà mai di strano in “neanche” per giustificare un episodio dedicato a questo avverbio o congiunzione.

Se ricordate lo abbiamo già incontrato nell’espressione “neanche a farlo apposta, in cui l’uso di neanche è quello più conosciuto: neanche equivale a nemmeno, usati entrambi per escludere qualcosa. Lo stesso vale per “manco”, più informale.

In particolare neanche indica una ripetizione o un aumento di negazione rispetto a una precedente negazione:

non sono a casa e neanche mia moglie;

Io non ho capito e neanche tu.

A volte si usa anche nel senso di persino:

Neanche un miracolo riuscirebbe a farmi parlare italiano correttamente

Ma l’uso che mi preme evidenziare è quando indichiamo qualcosa che accade subito dopo un’altra.

Si usa per sottolineare a volte la velocità con cui accade, altre volte la concomitanza di due eventi.

Neanche arrivo a casa che suona il telefono.

Osserviamo questa frase.

Significa che non appena arrivo a casa, immediatamente subito dopo, suona il telefono.

Non si sta dando un’indicazione precisa, non è detto che appena apriamo la porta sentiamo il telefono suonare, ma ciò che conta è la velocità, la concomitanza.

In realtà per capire il senso di frasi come queste occorre capire il contesto di riferimento.

Nell’esempio fatto, occorre aggiungere una premessa, altrimenti è poco chiaro. Ad esempio:

La mia amica Maria mi ha mandato un SMS dicendo: forse avrò bisogno del tuo aiuto tra poco. Ho un problema.

Accidenti! Io allora mi sono mostrato disponibile e le ho detto di chiamarmi a casa tra un po’ per spiegarmi bene a voce.

Neanche arrivo a casa che suona il telefono.

Ecco: con questa frase voglio sottolineare la contemporaneità di due eventi, il mio arrivo a casa e la telefonata, che è arrivata subito dopo il mio arrivo, più o meno contemporaneamente.

È una modalità colloquiale, discorsiva, adatta per i racconti, per le storie, per riportare le cose accadute, e lo facciamo per aumentare l’attenzione dell’ascoltatore e per rendere fluido il racconto, allo stesso modo di alcune altre locuzioni che abbiamo visto: al che, il che, a suo modo, volendo, se vogliamo, eccetera.

Ma vediamo altri esempi per capire meglio:

Ho avuto una discussione con un omone oggi in un parcheggio. Neanche mi giro che mi arriva un calcio nel sedere!

Avete capito sicuramente una cosa: la presenza di “che” è fondamentale per comprendere il significato della frase.

In questo caso quindi voglio dire che non appena mi sono voltato di spalle, quest’uomo mi ha dato un calcio nel sedere.

Non ha niente a che vedere col senso della negazione ripetuta sopracitata.

Il senso è:

non faccio in tempo a voltarmi che subito dopo mi è arrivato un calcio.

Si può in effetti anche sostituire neanche con “non”: “non faccio in tempo a… che… “.

In questo modo il senso sembra però leggermente diverso, perché detto così il calcio potrebbe arrivare anche prima di aver completato l’azione di voltarmi. Non è molto importante però in realtà la tempistica.

Diciamo che si dà il senso della quasi contemporaneità di due eventi. Poco prima, poco dopo o contemporaneamente è la stessa cosa.

Altri esempi:

Le previsioni del tempo davano probabilità di pioggia al 50%. Ho deciso di non prendere l’ombrello puntando sulla fortuna. Ovviamente neanche esco che arriva il diluvio universale.

Come dire: appena esco inizia a povere. Così però è più enfatico e per questo anche un po’ ironico.

Si può usare anche “nemmeno” o “manco” (più informale) al posto di neanche. Non cambia nulla.

Ho raccomandato a mio figlio di 11 anni di fare attenzione con i fornelli del gas quando è solo in casa. Non ci crederai, ma manco esco che mi chiamano i vicini perché sentono puzza di gas!

Giovanni è sempre velocissimo nel fare nuovi episodi. Manco finisce di scriverne uno che subito pensa al successivo.

Infatti proprio adesso mi viene in mente un altro uso particolare di neanche, che vediamo allora nel prossimo episodio.

Adesso ripassiamo. Invito almeno un membro dell’associazione a proporre qualcosa:

Ripasso degli episodi passati a cura del membri dell’associazione Italiano Semplicemente

Anthony: Avete visto come Giovanni mi ha chiamato in causa per scrivere un ripasso? Visto che ero particolarmente impegnato oggi stavo per rifiutare gentilmente l’invito con un “come non detto” . Ma poi mi sono detto “la mia partecipazione nel gruppo è contraddistinta dal comporre ripassi stracolmi di sciocchezze, Che danno farei se ne sfoderassi un altro?

Irina: hai raccolto la provocazione come sempre allora? Direi che ti sei anche contraddistinto per la tua prontezza a metterci del tuo nel gruppo. A me sembra un apporto molto gradito dai membri.

Khaled: c’e’ qualche idea che ti ronza per la testaper non dimenticare le espressioni passate? Magari commentare su quanto sono benaccetti e benvenuti i nuovi arrivati nell’associazione?

Ulrike: questa sì che è una buona idea. Non è mica peregrina come l’ultima volta.

Lia: guarda caso siamo alle solite con te. Anche quando gli fai un complimento lo fai da dritto. Trovi sempre un modo per prenderlo di mira, poveraccio.

Komi: allora ragazzi, al di là del solito tentativo di Ulrike di far andare di traverso ripassi a Anthony , che ne dite se dessimo una scorsa alla lista degli episodi passati?

579 Diminutivi, spregiativi e vezzeggiativi:

Diminutivi, spregiativi e vezzeggiativi (scarica l’audio)

Trascrizione

Giuseppina: una domanda che spesso pongono i visitatori di Italiano Semplicemente:ma quanti diminutivi ci sono nella lingua italiana?

La barbetta, lo stanzino, il capoccione, il ragazzetto, il vinaccio, pienotto, poveraccio, benone, la bestiaccia, alberello e tanti altri termini.

Quando vogliamo indicare una caratteristica particolare, spesso in italiano si ricorre, anziché agli aggettivi, ai suffissi, cioè modifichiamo una parola alla fine, aggiungendo qualcosa

Si parla di alterazione. Alterare significa modificare.

La caratteristica che si vuole evidenziare spesso è la dimensione, piccola o grande. Altre volte c’è un giudizio: una cosa brutta, bella, delicata. Una caratteristiche di questo tipo. Altre volte però il termine indica un particolare tipo di oggetto, che non risponde necessariamente alla regola generale dell’uso di quel particolare suffisso.

Si cambia la parte finale di una parola, che in genere è un sostantivo ma può anche essere un verbo o anche spessissimo un aggettivo o un avverbio.

Ecco allora che si possono formare delle parole a partire da altre.

Si tratta quasi sempre di linguaggio colloquiale, di termini che si usano all’orale.

La parte finale che si aggiunge si chiama suffisso. La parte iniziale non cambia in questi casi.

Come cambia la parte finale?

Quali e quanti suffissi esistono?

Non molti ma neanche pochi:

Ino” è il più diffuso.

Un tavolino ad esempio è un tavolo in cui si usa il suffisso “ino”. Si tratta di un piccolo tavolo, ma in realtà un tavolino non è solamente un piccolo tavolo, ma indica anche quella tavola su cui si scrive e si studia, quindi è un nome normalmente usato per particolari tipi di tavoli.

Sempre con “ino” c’è anche piccolino, che viene da piccolo. Gli aggettivi in generale che finiscono con ino indicano, con ironia o meno, una caratteristica di una persona o un oggetto. Questa caratteristica si riferisce in genere alle piccole dimensioni ma c’è spesso una nota di simpatia e di affetto. Ma non sempre.

Un ragazzo piccolino ad esempio è solamente non troppo alto di statura.

Un giochino invece? Spesso è un piccolo gioco, ma altre volte è qualcosa con cui ci si diverte, come un gioco, ma poco impegnativo, oppure un modo per giudicare negativamente il comportamento di una persona:

Non fare questi giochini con me! Non sono uno stupido!

Invece ci sono termini che indicano cose specifiche come il pannolino che chiamiamo così perché esiste anche il pannolone. Il primo è per i bambini, è più piccolo, e il secondo è per gli anziani, più grande. Non esiste il “pannolo” però.

Il termine “birichino” analogamente, non deriva da nessuna parola. Si tratta di un ragazzo o bambino vivace e impertinente, che fa i dispetti e che non obbedisce, è un po’ indisciplinato. Comunque si addice spesso ai bambini, che sono piccoli.

Comunque generalmente “ino” si usa per indicare una piccola dimensione, cosi come “one” è per le grandi dimensioni. Le cose di piccole dimensioni però terminano anche con “etto“.

Se prendiamo una stanza, uno stanzone è una grande stanza, mentre una piccola stanza la chiamiamo stanzetta, e parliamo solamente delle dimensioni, mentre lo stanzino è sempre una piccola stanza, un ambiente di piccole dimensioni, ma senza finestre, quindi buio, adibito però a ripostiglio o spogliatoio. Un oggetto che non usiamo lo mettiamo nello stanzino e non nella stanzetta.

Questo accade con molti termini.

Ragazzino e ragazzina indicano un ragazzo/a che è nell’età dell’adolescenza o della giovinezza. Spesso si usa per indicare semplicemente l’età:

È un ragazzino di 10 anni.

Oppure per giudicare comportamenti:

Ti comporti come un ragazzino viziato.

È un bravo ragazzino

È un ragazzino giudizioso e obbediente

Esiste però anche il ragazzaccio. Il suffisso “accio” si usa sia per giudicare la cattiva qualità, sia come forma amichevole.

Se il ragazzone ad esempio indica un ragazzo grande o alto, più del normale, un ragazzaccio si usa per indicare simpaticamente una persona che si comporta a volte in modo infantile solo per divertirsi, magari un ragazzo che fuma, beve alcool e cambia partner continuamente.

Non sempre accio è pertanto uno spregiativo.

Pensiamo a fisicaccio che indica un fisico muscoloso o agile. Tutt’altro che qualcosa di negativo.

Accidenti che fisicaccio che ti è venuto!

Givanni è un ragazzaccio, ma è molto simpatico!

La maggioranza delle volte però accio indica cose scadenti, di bassa qualità:

Attento alle stradacce di campagna ché si rompe la macchina.

Quella signora è una vecchiaccia invidiosa!

È successo un fattaccio oggi a scuola: hanno picchiato un insegnante.

Il quel quartiere è pieno di donnacce!

Si tratta quasi sempre di giudizi negativi: con una donnaccia ci si riferisce alle abitudini sessuali, se invece parlo di vecchiaccia si parla di cattiveria pura. Se parlo di scarpacce parlo di scarpe di bassa qualità, mentre le parolacce sono parole da non usare perché volgari e offensive. Un fattaccio è un brutto fatto.

L’episodio si chiama diminutivi, dispregiativi e anche vezzeggiativi perché i diminutivi servono a ridurre (non solo le dimensioni), a diminuire qualcosa, in genere le dimensioni (tavolino, bambino, ecc) mentre i vezzeggiativi sono una particolare forma di diminutivo, perché l’immagine della piccolezza è accompagnata dalla simpatia o dalla grazia. Vezzeggiare infatti significa trattare con tenerezza, con affetto.

Non solo ino quindi, ma anche etto e uccio:

È nato un bel maschietto!

No, ci siamo sbagliati, è una femminuccia!

Che bel nasetto che ha quel bambino.

Ha una boccuccia molto carina

Che tesoruccio che sei stato a regalarmi le rose 🌹

Se parliamo di spregiativi, oltre che accio, come suffisso per dare un’immagine negativa c’è anche – ucolo, accio, uccio, astro, aglia:

Giovanni non è una persona onestà ma solo un omuncolo insignificante.

Questi suffissi, aggiunti in genere a sostantivi o aggettivi, esprimono valore diminutivo con un senso peggiorativo, e molto raramente affettivo:

Non ascoltare il giudizio delle persone a cui non stai simpatico. Si tratta di gentucola (piccole persone, di poca importanza)

Peppe non è uno scrittore, scrive solo su giornarucolo di paese. Niente di importante.

Tutt’altra cosa che dire: il mio è un giornalino per ora ma se ci comportiamo bene possiamo crescere.

Che gentaglia che ci sta in questo posto. Andiamo via subito! Veramente un postaccio! (un brutto posto)

Attenzione perché non sempre è così. La vestaglia ad esempio è un indumento che si indossa in camera, maschile o femminile, più o meno lunga, tenuta chiusa da una cintura allacciata in vita o, per la donna, anche da una fila di bottoni. Non c’è niente di male nell’indossarla.

Riguardo ad uccio, si è detto che esprime affetto, questo quasi sempre: tesoruccio, caruccio (che è simile a carino) ma raramente può diventare spregiativo:

Paolo è un impiegatuccio del comune di Roma.

Poi c’è da dire che succede anche che dal maschile al femminile si aggiunge un diminutivo e le dimensioni non c’entrano granché:

Sapone, saponetta

Sigaro, sigaretta

Palazzo, palazzina

Una cosa curiosa è quando usiamo due suffissi insieme:

Palo, paletto, palettino

salto, saltello, saltellino

quadro, quadretto, quadrettino

Casa, casetta, casettina

Mora, moretta, morettina

Bestia, bestiola, bestiolina

uomo, omaccio, omaccione

Stanza, stanzetta, stanzettina

Altre volte non esiste il passaggio intermedio:

Fiore, fiorellino (non c’è fiorello)

Buono, bonaccione

Bonaccione è interessante perché si usa per descrivere le persone buone, ma anche di indole semplice e mite. Si usa anche quando queste persone hanno un aspetto imponente, ma per questo non sono da temere:

Pietro sembra cattivo. È alto e grosso ma è un bonaccione.

Per sapere quale diminutivo usare, per un non madrelingua non è facile, perché bisogna leggere molto e conoscere bene la lingua per sapere alcune differenze.

Basti pensare al fiore. Un piccolo fiore non si chiama fioretto perché questo è una specie di promessa a Dio, un sacrificio, una astinenza, un atto di rinuncia fatto volontariamente per devozione, per fede. Se faccio un fioretto alla Madonna faccio una promessa alla Madonna, ad esempio prometto di non fare piu l’amore con nessuno.

Un fiorino invece oltre ad essere una moneta è anche un tipo di macchina. Il fioruccio invece non si usa proprio. Allora un piccolo fiore si chiama solamente fiorellino. Ma bisogna saperlo.

Lo stesso vale per altri sostantivi e aggettivi. Bisogna praticare per capire quale suffisso usare.

Per i nomi delle persone è molto frequente l’uso di un diminutivo:

Paolo può diventare, per gli amici, Paoletto, Paolino, Paolone, Paoluccio.

Questo vale per ogni nome di persona: Franceschina, Marchetto eccetera.

Esistono comunque anche altri suffissi più rari: – ello:

Adesso sei grandicello, puoi iniziare a cucinare da solo che ne dici?

attolo

Omiciattolo ad esempio è come omuncolo nel significato.

otto, come – one, può formare accrescitivi, qualcosa di grande nelle dimensioni o nelle caratteristiche, ma otto è particolare perché si usa per dare ambiguità, nel senso che non è ben chiaro se stiamo sottolineando un accrescimento o una diminuzione. Dipende dal caso. In effetti qualcosa di barzotto di trova in uno stato intermedio.

Può dirsi barzotto un tempo meteorologico variabile, come anche una persona un po’ ubriaca. O anche delle uova cotte a metà sono, se vogliamo, barzotte.

Con i sostantivi dipende. Un cipollotto è inteso come più piccolo di una cipolletta o cipollina, mentre un barilotto è inteso come più grande d’un bariletto.

Poi in quanto ambiguo si presta bene a situazioni scherzose: scemotto e cretinotto al posto di scemo e cretino. È meglio o peggio? Dipende dal l’occasione.

Quanto detto finora ci fa capire che non esiste una regola per capire esattamente quando un suffisso indichi una cosa precisa, senza sbagliare. Pazienza!

Credo sia abbastanza per oggi che ne dite? Spero che avete apprezzato l’episodio, in tal caso ho fatto un figurone, altrimenti una figuraccia.

Adesso ripassiamo:

Irina: sono stata colpita dal termine accattivante, che è stato usato nella lezione dedicata ai suggerimenti, nel corso di Italiano Professionale. Una spiegazione non lascerebbe il tempo che trova secondo me. Mi dispiacerebbe se passasse in cavalleria.

Bogusia: va detto subito che non ha niente a che fare con la cattiveria.

Harjit: infatti, invece è simile a attraente. È qualcosa che cattura la nostra attenzione e interesse. A volte ispira simpatia e fiducia, altre volte c’è una sfumatura di furbizia, come un sorrisetto accattivante.

Flora: in virtù di questa spiegazione, adesso credo che non perderò occasione per usare “accattivante“, laddove ovviamente sia adatto.

Hartmut: non abbiamo che da aspettare allora…

Ulrike: Questo è un ripasso particolare, senz’altro degno di nota. Abbiamo preso due piccioni con una fava, cioè rispolverato qualche espressione già trattata e al contempo letto e ascoltato una concisa lezione sull’aggettivo accattivante. Veramente impressionante, bravissimo Gianni, ma come si fa a non iscriversi all’associazione italiano semplicemente?

Bogusia: È il nostro professore indefesso, appunto, che ci propone una caterva di idee per ingranare con l’italiano. Non molla neanche nel caso di duri di comprendonio come siamo talvolta e va avanti cercando di inculcarci qualcosa anziché darci il benservito. Avercene di professori come Gianni

Italiano Professionale – lezione 34: suggerimenti e proposte

Episodio disponibile per i membri dell’associazione Italiano Semplicemente (ENTRA)

Se non sei membro ma ami la lingua italiana puoi registrarti qui

richiesta adesione Descrizione

Oggi trattiamo un tema importantissimo per affrontare una riunione, un incontro, una tavola rotonda o un incontro professionale di qualsiasi tipo: i suggerimenti. Cos’è un suggerimento? Che significa suggerire? Vediamo dunque come dare un suggerimento, come accettarlo e come rifiutarlo. Esercizi di ripetizione ed esempi Durata: 25 minuti suggerimenti

Il semestre bianco – POLITICA ITALIANA (ep. n. 12)

Il semestre bianco (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: Benvenuti in questo episodio dedicato al linguaggio della politica.

Ogni volta che si parla di elezioni del presidente della repubblica italiana, si parla del famoso semestre bianco.

Sapete che il presidente della repubblica, anche detto “Capo dello Stato” oggi è Sergio Mattarella.

Ebbene, il Presidente della Repubblica è eletto ogni sette anni e che essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici.

Ma che cos’è il semestre bianco del presidente della repubblica?

Sapete che un semestre è un periodo di sei mesi.

Due mesi si chiamano bimestre.

Tre mesi trimestre

Quatto mesi quadrimestre

Cinque mesi pentamestre

Sei mesi semestre

Come ho detto ogni sette anni ci sono le elezioni del presidente della repubblica. In questo caso si parla di settennato.

Il “mandato” del presidente dura quindi sette anni. Il “settennato“, è come il biennio (che dura però due anni), il triennio (tre anni), il quadriennio (4 anni), il quinquennio (5 anni), sessennio, settennato, eccetera. Il settennato è pertanto un periodo che dura 7 anni.

In realtà si dovrebbe chiamare “settennio“, (e così infatti si chiama nella lingua italiana un periodo di 7 anni) ma la durata del mandato del presidente della Repubblica oramai viene chiamato “settennato“, come a voler coniare un periodo che è solo relativo al mandato del Presidente della Repubblica italiana. Probabilmente deriva dal francese. Infatti fin dalla costituzione del 1875, il capo dello Stato durava per sette anni: septennat è il termine usato in francese divenuto poi quello abituale parlando della prima carica dello Stato..

Gli ultimi sei mesi del mandato settennale sono chiamati appunto “semestre bianco“. È quindi la parte conclusiva del mandato settennale del presidente della repubblica.

Ho detto mandato settennale, stavolta parlo dell’aggettivo.

Il mandato dura sette anni, pertanto è settennale.

Annuale, biennale, triennale, quadriennale, quinquennale, sessennale, settennale eccetera.

Perché dare un nome a questo ultimo semestre? In questo periodo cambia qualcosa nei poteri del presidente. Infatti le sue prerogative subiscono delle limitazioni: in base al dettato costituzionale infatti, il capo dello stato (che in questo periodo viene detto “uscente” perché potrebbe essere sostituito una volta scaduti questi sei mesi) non può più sciogliere le camere (questo è il suo potere più grande) a meno che queste, a loro volta, non siano già entrate negli ultimi 6 mesi della legislatura.

Sciogliere le camere significa far cessare, da parte del capo dello Stato, l’attività del parlamento prima del termine della legislatura indicendo nuove elezioni. Dopo lo scioglimento delle camere, essere semplicemente non esistono più.

Ma perché ridurre il potere del presidente durante il semestre bianco?

Si vuole semplicemente evitare che il presidente della repubblica, all’approssimarsi della fine del suo mandato, potesse sciogliere le camere con l’obiettivo di far eleggere un parlamento più favorevole ad una sua ipotetica rielezione. Quindi è una precauzione.

Perché il semestre viene detto bianco? Semplicemente perché il bianco è indicativo dell’assenza di colore, così il bianco può rappresentare l’assenza di qualche altra cosa. Allora in questo caso si tratta del potere. Il suo potere più grande è quello di sciogliere le camere (la camera dei deputati e/o quella dei senatori), cosa che non può fare durante il suo ultimo semestre. ecco perché viene detto semestre bianco.

Alla prossima lezione.

578 Dare una scorsa

Dare una scorsa (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: Quante volte capita che non abbiamo il tempo di leggere con attenzione un documento o una email o dei messaggi whatsapp e siamo costretti a dare solamente una scorsa?

Ho dato solo una scorsa veloce alla email che mi hai mandato!

Una scorsa pertanto è lo scorrere in fretta uno scritto, leggendolo a tratti e rapidamente:

Mi piace dare una scorsa al giornale per leggere almeno le notizie principali.

C’erano 300 messaggi nel Gruppo whatsapp e ho dato una scorsa per vedere se c’erano dei messaggi rivolti a me

Molto spesso, soprattutto in contesti familiari, si usa anche:

Dare una guardata

Questo è però più simile a controllare. Si può quindi dare una guardata alla posta elettronica, ma anche dare una guardata al bambino mentre la mamma è fuori a fare la spesa. Anche l’occhiata e l’occhiatina si usano nel senso anche di controllare.

Mi dai una guardata al pupo mentre sono via?

Dai un’occhiata alla casa mentre sono in vacanza?

Ho dato un’occhiatina e mi è sembrato che sia finito il caffè

Anche “dare una letta” è molto diffuso, ma, come la scorsa, si usa solo per i documenti scritti.

Dai una letta ogni tanto alle notizie per restare aggiornato.

Ho dato una letta veloce a ciò che mi hai spedito. Oggi leggerò più attentamente e ti faccio sapere le mie osservazioni.

Dare una scorsa” ovviamente utilizza il verbo scorrere. È il participio passato femminile.

Posso anche dire: ho scorso i messaggi, ho scorso le pagine velocemente, che è esattamente come “ho dato una scorsa”.

Si scorre velocemente, dall’alto verso il basso, ma senza prestare troppa attenzione ai dettagli.

Le modalità alternative sopracitate sono ugualmente valide, anche se abbastanza informali per i documenti scritti. Va comunque sempre usato il verbo dare.

Nella pronuncia, mi raccomando la o chiusa di scorsa, altrimenti sembrerà stiate parlando della scorza, (con la o aperta) cioè della buccia del limone, o il guscio di alcuni frutti, che viene chiamato anche così: scorza. Si scrive però con la zeta e non con la esse.

Fatemi un favore, date una scorsa all’episodio e segnalatemi se ci sono errori di battitura.

Adesso ripassiamo:

Ripasso degli episodi passati a cura del membri dell’associazione italiano semplicemente

Albéric: ciao ragazzi. Io ascolto spesso musica sapete? Influisce molto sul mio umore. Ho letto che è meglio ascoltare musica che fare all’amore.

Komi: ah, e me lo dici solo ora? Mi prendi in contropiede perché ero già pronto per invitarti a cena e ti ho già comprato un mazzo di rose…

Emma: a questo punto vediamoci tutti a casa mia. Io preparo le cuffie e il CD dei Maneskin. Ne ho solo per un’ora ancora ma poi sono pronto.

Irina: non vorrei spegnere gli entusiasmi ragazzi, ma io, e spero non me ne vogliate per questo… Avrei un appuntamento e.. ho già ascoltato troppa musica in vita mia!!

577 Ci si vede

CI SI VEDE (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: una cosa che mi ha colpito quando studiavo il francese è che si usa la forma impersonale al posto della prima persona plurale. Infatti accade la stessa cosa nella lingua italiana:

“Andiamo” può diventare “si va”. Questo accade tra amici e parenti e in generale fa parte del linguaggio colloquiale.

Che ne dite, si va a fare una corsetta oggi?

Lo stesso accade con gli altri verbi. Mi interessa in particolare il verbo vedersi, utilizzato quando ci si saluta:

Ci si vede domani

È equivalente a “ci vediamo domani”.

Questa è una modalità usata in tutt’Italia. In Toscana però in particolar modo, perché questa abitudine, tipica del linguaggio colloquiale, è diffusissima per tutti i verbi.

Ho scelto il verbo vedersi perché è la forma riflessiva di vedere e quindi è più complicato. Bisogna infatti aggiungere la particella ci.

Allora, che si fa, ci si vede domani? (che facciamo, ci vediamo domani?)

Quando ci si vede?

Ci si vede in giro

Da quanto tempo non ci si vede? Saranno almeno due anni.

Spesso si sente (e molto raramente si legge anche) “ci si rivede“.

Non c’è in realtà molta differenza, semplicemente “ci si rivede” vuol dire “ci si vede di nuovo/un’altra volta”, ma possono essere usati nello stesso contesto e quindi direi che sono perfettamente intercambiabili. Infatti l’unica occasione in cui “ci si rivede” non andrebbe bene è nel caso di un primo incontro tra due o più persone.

Questa forma colloquiale non è adatta comunque al lavoro e in generale in contesti formali, dove si può semplicemente usare un “arrivederci“, o “a domani“, “ci vediamo domani”.

Un’ultima cosa che riguarda l’uso di ci e si. Si potrebbe pensare che si possano scambiare le due particelle ci e si. Questo invece non si può fare. L’unica sequenza ammessa è “ci si”, mentre “si ci” non si usa mai.

Quindi si deve dire:

Ci si aspetta al parco per l’appuntamento

Ci si vede alle 10 in punto.

Ci si pensa un po’ e poi ci si sente su whatsapp

Questa regola vale sempre, ogniqualvolta ci e si, si incontrano:

Ci si mette un’ora per arrivare a Roma

Ci si può andare in questa strada?

Allora ci si vede al prossimo episodio.

Adesso ripassiamo, e con l’occasione, commentiamo anche due verbi che abbiamo trovato all’interno di un racconto di Moravia dal titolo “il delitto perfetto“, una lettura che abbiamo fatto all’interno del gruppo whatsapp dei membri dell’associazione.

Ripasso degli episodi passati a cura del membri dell’associazione italiano semplicemente.

Mariana: ragazzi, ci sono alcuni verbi riflessivi che mi fanno vedere i sorci verdi. Si tratta di rimetterci e inoltrarsi.

Harijt: beh, meno male che sei un membro dell’associazione altrimenti ti avrei invitato ad attaccarti!

Sofie: ma cos’è, vi siete dati al linguaggio di strada oggi?

Komi: ti aiuto io su inoltrarsi. Dunque inoltrarsi è simile a andare. Dipende però dalla frase e dal contesto. Se ci si inoltra nella foresta o in un bosco si sta entrando in profondità nel bosco. In generale è come iniziare un cammino e si può usare anche per altre attività. Ad esempio ci si può inoltrare nello studio di una lingua. Spesso ci si inoltra in discussioni inutili o complicate, o se vogliamo, in un’impresa troppo difficile.
Chi si inoltra nella lettura ha iniziato a leggere qualcosa ed è già andato oltre un certo livello iniziale. Magari ha letto 100 pagine e passa.
Come verbo, spesso è anche usato per esprimere pericolo. È infatti pericoloso inoltrarsi nel bosco. Significa che sei andato oltre il dovuto e anche che te le cerchi.

Irina: già, e ci si può persino rimettere la pelle in questi casi. Ho usato il verbo rimetterci: “rimetterci la pelle” è, tra l’altro, un’espressione che si è già spiegata in questa rubrica. Da non confondere con rimettersi. Non ci rimetti nulla, se non ricordi bene, a dare un’occhiata all’episodio. È un episodio abbastanza recente, non è da illo tempore che è stato spiegato.

Ulrike: Una spiegazione con i fiocchi Komi. Ma senti, hai detto inoltrarsi è un po’ come iniziare un cammino. Hai presente che nel racconto di Moravia di cui sopra in un simile contesto viene usato il verbo avviarsi. Ho sentore che abbia lo stesso significato. Ma può darsi che ci siano delle sfumature.

Emma: sfumature dici? Veramente avviarsi è solo l’inizio di qualcosa. Un inizio è un avvio. Se vai un po’ oltre però, tanto che tornare indietro non è poi così facile, nel caso del bosco, allora significa che dopo esserti avviato, ti sei anche inoltrato. Ad esempio chi si è appena avviato nella lettura e nell’ascolto degli episodi di questa rubrica, è diverso da chi si è già inoltrato nella lettura da un pezzo.

576 Sì, far sì, di sì, se sì, sì che, signorsì

Sì, far sì, di sì, se sì, sì che, signorsì (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: tutti voi, studenti non madrelingua o amanti della lingua italiana, o entrambe le cose, sapete bene il significato di ““. Lo conoscete vero? Siete sicuri?

Sì, lo so che lo conoscete. Ma non fino in fondo forse. Infatti se ho deciso di dedicare un episodio a questo avverbio evidentemente c’è qualcosa che ancora neanche immaginate.

Oggi allora facciamo una panoramica, cercando di farla abbastanza veloce però per non far torto al nome della rubrica (due minuti con Italiano Semplicemente).

Nel senso di risposta affermativa, sì si contrappone a quella negativa (no), ma possiamo notare alcune cose utili da sapere.

Possiamo raddoppiare: sì sì!

In questo modo lo rafforziamo.

Ti sei ricordato di chiudere la porta prima di uscire di casa?

Risposta: sì sì!

Come dire: certo, stai tranquillo, sono sicuro di questo.

Posso anche dire:

Ma sì!

Sì, certo!

Ovviamente sì

Sì, senz’altro

Che ugualmente rafforzano l’affermazione. Spesso “ma sì” si usa quando qualcuno insiste troppo.

Ti sei lavato le mani?

Ma sì, sono tre volte che me lo chiedi.

Oppure quando ci si vuole concedere qualcosa:

Andiamo al cinema stasera?

Ma sì, perché no! Andiamo!

Se seguito da “che” si usa per fare una distinzione, per far notare una differenza oppure sempre per rafforzare un sì:

Sei incinta? Veramente? Questa sì che è una bella notizia.

Questo sì che è un albergo, mica come quello di ieri!

Per rafforzare::

Certo che sì!

Vuoi sapere se sono felice! che lo sono!

È un sì convinto, e questo può essere rassicurante, ma anche offensivo, o almeno un poco indelicato:

Ti sei ricordato di chiamare tua madre?

che mi sono ricordato, cosa credi? Ho una memoria di ferro, non lo sai?

che lo so, mica volevo offenderti.

Un po’ più informale rispetto a “certo che“.

Lo stesso senso lo otteniamo anche mettendo il “sì” alla fine, ma senza “che” . Attenti anche al tono:

Mi sono ricordato sì!

Questa può essere una risposta piccata, che manifesta irritazione, per aver dubitato di qualcosa.

Sai fare questo esercizio?

Risposta: lo so fare ! Mica sono scemo!

Sempre associato a “che“, ha un senso simile a “eppure“, ma ci deve essere anche la congiunzione “e”:

Perché sei uscito senza giacca? È ovvio che adesso hai freddo.

E sì che te l’avevo detto!

Come dire: io te lo avevo detto, ma non ci hai creduto.

C’è una constatazione:

Mi hanno rubato la macchina! E sì che mi avevi avvertito che questa era una zona pericolosa.

Questo ha un significato diverso, se ci pensate, alla locuzione “e dire che“, di cui ci siamo già occupati, dove c’è una contrapposizione tra ciò che sembrava e la realtà. Di fatto però anche “e dire che” può usarsi allo stesso modo:

Adesso hai freddo? E sì che te lo avevo detto che dovevi prendere la giacca.

Adesso hai freddo? E dire che te lo avevo detto che dovevi prendere la giacca.

Si può usare anche con la preposizione “di“:

Le ho chiesto di sposarmi. Lei ha risposto di sì

Mi ha detto di sì

Ci sono poi frasi particolari che sono vicini ad un sì:

pare proprio di sì

Sembra di sì

speriamo di sì

Col verbo fare non si usa però la preposizione “di“, perché non bisogna parlare:

Se ti fanno delle domande, fai sì con la testa.

Cioè: di’ di sì con la testa.

A proporosito di fare sì. Questa può diventare una locuzione: far sì, che significa “fare in modo“:

Bisogna far sì che ci sia giustizia in questo paese.

Devi far sì che tuo figlio non corra alcun pericolo. Proteggilo.

Può anche essere un sostantivo:

Vuoi sposarmi? Voglio un sì!

Il tuo è un sì o un no?

Si usa anche per rispondere al telefono o quando mostriamo disponibilità. In questo caso si deve usare con intonazione interrogativa.

Al telefono sta per “pronto!” o “dica!”

?

Si può usare al posto di *eccomi!”,” avanti!”,”desidera?” ad esempio se bussano alla porta o se qualcuno ci chiama o se sta per dirci qualcosa e noi vogliamo mostrare disponibilità.

A volte significa “tanto“, “così tanto“, “talmente“, se davanti ad un aggettivo. Questo senso si trova abbastanza spesso nella letteratura e nella poesia:

Era sì bella e colta che tutti la desideravano.

È però un uso sicuramente passato di moda, sebbene sia compreso ancora da tutti.

Sempre davanti ad un aggettivo, qualche volta può significare “nonostante questo“:

Era sì molto bella, ma non era molto colta.

Ho sì mangiato, ma ho ancora molta fame.

Come dire: nonostante io abbia già mangiato, ho ancora fame. È vero che era bella, ma non era molto colta, istruita.

C’è sempre un ma o un però in questi casi.

Si usa anche in modo ironico:

Scommetto che sposeresti un uomo ricco anche se bruttissimo!

Risposta:

Sì, domani!

Sì, credici!

Sì, aspetta!

In pratica la risposta è no. Non si ha quindi nessuna intenzione di fare ciò che è stato richiesto.

Un altro modo ironico è per sostituire “sempre“:

Mi chiama un giorno sì e l’altro pure. Che pizza!

Sbaglia un giorno sì e l’altro pure.

Si usa spesso insieme al no:

Allora? Sì o no?

Giovanni fa lezione un giorno sì e uno no (cioè a giorni alterni).

Vado a lavorare un giorno sì e uno no.

Non hai risposto né si né no alla mia domanda

Quando è preceduto da “se” significa “in caso affermativo” :

Non so se passerò l’esame. Se sì, ti mando un whatsapp. Se no, spengo il telefono.

Ovviamente “se no” sta per “in caso negativo”.

Allora, se prima credevate di sapere il significato di sì, adesso sì che siete confusi vero? E sì che vi avevo avvertito!

A proposito di confusione: non confondete sicché, unico termine, con “sì che” (due parole).

Poi ci sono parole particolari come signorsì (o signór sì), un avverbio composto di signore e sì che si usa nell’esercito, tra militari, quando si obbedisce ad un ordine di un superiore.

È equivalente a sissignore, anche questo tutto attaccato, con due esse centrali. In particolare questa parola si usa anche per conferire (dare) una carica intensiva a un’asserzione (un’affermazione) :

Allora, hai deciso di lasciarmi?

Sissignore! ho proprio deciso di lasciarti. Non ne posso più.

Come a dire: sono molto deciso in questo, qualcosa in contrario?

La forma staccata si usa invece quando signore è accompagnato da altra parola.

Sì, signor colonnello

Sì, signora maestra

Adesso ripassiamo, prima che vi arrabbiate.

Ripasso degli episodi passati a cura del membri dell’associazione italiano semplicemente

Hartmut e Mary: una volta ho sognato che parlavo tutte le lingue del mondo. Non ti dico quanto ero felice!

Ulrike: mi rodo sempre dalla rabbia sempre quando vedo qualcuno molto disinvolto con le lingue. Sarei ben felice di essere al suo posto.

Albéric: bisogna però esserci portati. Non è che tutti abbiamo le stesse capacità.

Irina: dite? Sarà! comunque io conosco solo la mia lingua e riesco a giostrarmela dappertutto nel mondo. Non me ne volete ma questa ossessione per le lingue non la capisco.

Lia: grazie, tu parli l’inglese!

Mariana: Irina, a me questa che hai detto mi pare veramente una stupidaggine. Lo studio di una lingua straniera, al di là della funzione di cavarsela viaggiando, serve a capire la cultura di un popolo, ossia conoscere la gente del paese. Senza di questo, viaggiare è inutile, quasi, se mi passate il termine, una supercazzola.

575 Infierire

INFIERIRE (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: Sapete che ci sono tantissimi termini, verbi espressioni o locuzioni nella lingua italiana che hanno origine dal mondo animale?

Uno di questi è il verbo infierire.

Infierire viene infatti da fiera, che rappresenta un animale selvatico e feroce, cioè una belva.

Sapete che gli animali, se sono feroci, significa che sono aggressivi, aggrediscono e lo fanno ovviamente per sopravvivenza.

La ferocia è una caratteristica degli animali carnivori, cioè che mangiano carne. La ferocia è aggressività selvaggia, bestiale, appunto.

Quando un animale feroce aggredisce la sua preda per mangiarla, non ha pietà: si avventa contro di lei (verbo avventarsi, cioè scagliarsi, vale a dire lanciarsi, gettarsi, piombare sulla preda, balzare sulla preda velocemente) e la uccide. L’animale, si può dire, infierisce contro la sua preda, e infierire significa accanirsi con particolare violenza e ferocia contro qualcuno.

Notate che anche accanirsi è un verbo che deriva dal cane, quindi anch’esso ha origine animale. Sarebbe come comportarsi come un cane, con la stessa sua crudeltà. Povero cane.

Ma poniamo la nostra attenzione sul verbo infierire, perché, proprio come accanirsi, è di uso comune.

Naturalmente si tratta di due verbi che non si usano solamente parlando di animali.

Il verbo infatti si usa prevalentemente per indicare una insistenza ingiustificata in un’azione che provoca un danno a qualcuno.

Il verbo insistere è abbastanza vicino come significato ad infierire, ma insistere manca della componente “animale”, una componente di eccesso, di durezza esagerata, eccessiva. A volte, con infierire, c’è persino crudeltà, masochismo, quasi una voglia di fare del male fine a sé stesso, solo per il gusto di farlo. Cosa questa che non appartiene agli animali ovviamente, che semplicemente agiscono secondo natura.

Vediamo qualche esempio:

Il professore di italiano non soltanto ha bocciato lo studente, ma ha voluto infierire su di lui, facendolo vergognare davanti a tutti gli altri studenti per la sua impreparazione.

Questo professore è stato quindi un po’ cattivo, si è comportato in modo eccessivamente duro con questo studente. Non solo l’ha bocciato ma ha anche infierito su di lui, perché non gli bastava bocciarlo, ma ha voluto dargli una lezione davanti a tutti gli altri studenti.

Ha esagerato? In genere sì se usiamo il verbo infierire. C’era bisogno di infierire? Probabilmente no, ma evidentemente il professore non era di questo avviso.

Il verbo si usa prevalentemente con le persone, che infieriscono con i loro comportamenti su altre persone, in genere inermi, che cioè non hanno modo di difendersi. Non possono fare nulla. Può bastare questo, questa incapacità di difendersi per giustificare l’uso del verbo infierire.

Infierire è dunque “andare oltre” un certo limite mostrando durezza e mancanza di empatia o sensibilità:

Perché infierisci su quella povera formica, cosa ti ha fatto di male?

Adesso basta, non trattare cosi male tuo figlio. Ti ha già chiesto scusa per il suo errore. Perché infierire su di lui?

Una donna ha ricevuto 150 coltellate, ma nonostante questo, l’imputato ha dichiarato che non voleva infierire su di lei.

Dei ragazzi sono stati picchiati mentre dormivano. Ma chi è stato ad infierire in questo modo su di loro?

Ti sei accanito contro di me? Ti piace infierire? Ci provi gusto?

Non si usa solo con le persone però:

Anche una malattia, un terremoto, un uragano, una qualunque calamità naturale, quando si manifesta con particolare violenza, si può dire che infierisce, perché colpisce la popolazione che non può fare nulla per difendersi e che magari ha già altri problemi.

Il virus continua ad infierire sul mondo intero. Questo virus è senza pietà.

Dopo il terremoto, arriva anche il temporale ad infierire contro la popolazione.

Adesso ripassiamo. So che avete capito. Non voglio infierire.

Ripasso degli episodi passati a cura dei membri dell’associazione Italiano Semplicemente:

Khaled: ciao a tutti. Mi chiedo se sia meglio amare o essere amati, dovendo per forza scegliere. Come la vedete voi?

Komi: senz’altro meglio essere amati. Mi fa sentire più sicuro. Che poi così non ci si emozioni, me ne farò una ragione. Preferisco non soffrire, altro che storie!

Irina: di contro però va detto che questa sicurezza va a scapito della vera felicità. No! Meglio amare, mi fa sentire vivo/a. Sempre che però io non sappia di non essere amato/a.

Ulrike: sono d’accordo. Tra l’altro l’amore dato non è mai perso, vale a dire che non si ama mai invano. Ciò non toglie che anche essere amati abbia i suoi vantaggi.

Sofie: si tratta in entrambi i casi di rapporti che sono giocoforza destinati a finire. Chi ama, prima o poi darà il benservito all’altro, e ne ha ben donde.

Mariana: spesso accade anche il contrario però, e chi ama ci rimane fregato, fermo restando che lo era già prima, secondo me.

Irina: Comunque io, per non saper né leggere né scrivere, preferisco fare incetta di uomini, con buona pace dei moralisti, bigotti e bacchettoni. Prima o poi uno da amare e che mi ama lo trovo!

Anthony: davvero? Non ti ci facevo!!

574 Rosicare

Rosicare (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: un verbo molto usato tra i giovani è rosicare.

Un verbo che ha due utilizzi.

Il suo senso proprio ha anche fare con la bocca, anzi con i denti.

Con i denti infatti non solo si può mordere, masticare o azzannare qualcosa, ma anche rosicare qualcosa.

La cosa che si rosica normalmente è un osso.

Significa rodere a poco a poco, rosicchiare.

Si può rosicare una pannocchia, si può anche sgranocchiare una pannocchia, oppure un torsolo di mela ed altro.

Rosicchiare è più usato ma ha solo un uso proprio, mentre rosicare è più informale, inoltre l’utilizzo di rosicare va oltre il senso di mordere poco a poco, cioè mordere un poco alla volta qualcosa, consumandolo gradualmente, proprio come fa un cane col suo osso.

Oltre al famoso proverbio “chi non risica non rosica” che abbiamo già visto insieme e che significa che bisogna rischiare per ottenere qualcosa, esiste un uso figurato del verbo rosicare.

Sta per rodersi per la rabbia, per la gelosia o per l’invidia. Esprime un sentimento negativo caratterizzato dal fatto che non si accetta qualcosa che è successo e questo ci fa stare male.

C’è un personaggio dei fumetti, (il nome del fumetto è Topolino, o Mickey Mouse per la precisione), personaggio che si chiama Rockerduck, che quando provava questo sentimento di rabbia,si mangiava letteralmente dei cappelli.

Succedeva quando era molto arrabbiato per qualche vittoria economica ottenuta dal suo rivale Paperon de Paperoni, a suo danno. Questa rabbia veniva sfogata materialmente rosicando, cioè rosicchiando dei cappelli uno alla volta, consumandoli un morso alla volta per la rabbia. Rockerduck quindi rosicava per la sconfitta.

È proprio rosicare il verbo che si usa in casi di rabbia, ma prevalentemente tra i giovani. Potremmo collegare il verbo rosicare anche all’ultimo episodio in cui abbiamo visto il verbo attaccarsi, infatti chi si attacca, spesso poi rosica per questo.

Non si tratta di cose molto importanti in realtà, ma di questioni abbastanza futili, poco importanti veramente, che però da giovani hanno il loro peso.

Es: I giocatori inglesi hanno rosicato per la vittoria dell’Italia agli Europei 2020, tanto che lo hanno dimostrato togliendosi la medaglia dal collo durante la premiazione.

La vittoria degli avversari spesso provoca rosicamento, cioè rabbia mista a delusione per una sconfitta che poteva essere invece una vittoria.

Un modo altrettanto diffuso per chiamare questo sentimento prevede l’uso del verbo rodere.

Es:

Mi rode per la sconfitta di ieri.

Vedo che ti rode parecchio per aver perso la sfida.

Rodere (o rodersi), però, ha un senso più ampio e si può usare in più modi in diverse occasioni.

Oltre che, ancora una volta, avere il senso proprio di staccare con i denti delle piccole parti di un corpo duro, quindi proprio come rosicchiare e rosicare, es.

Rodere un pezzo di pane secco

Significa anche logorare, deteriorare. C’è qualcosa che si consuma, si deteriora, si logora.

Allora posso dire che “la ruggine rode il metallo”.

Come vedete il senso di rodere, fin qui, non ha un contenuto emotivo.

Però come detto, nelle relazioni umane, rodere si usa soprattutto per indicare un risentimento, una sensazione di fastidio, di dispiacere che non riesco a fermare.

Non c’è però necessariamente invidia, dispiacere perché qualcun altro ha ottenuto qualcosa e noi no.

Es:

Mi rode di non poter fare le vacanze quest’anno

Come dire: mi dà fastidio, mi provoca malessere e non posso far nulla per questo.

Il legame col senso proprio, quello legato al consumare qualcosa, si riferisce al fatto che quanto ti rode per qualcosa si sta consumando sé stessi, si sta facendo del male a sé stessi. Qualcosa ci sta logorando, consumando, deteriorando.

C’è qualcosa che ci tormenta, che ci strugge.

Posso dire:

Rodere di gelosia o rabbia

Rodere per la gelosia o per la rabbia

Posso usare anche la forma riflessiva:

Rodersi di/per gelosia/rabbia

Se uso rosicare siamo più in ambito di rabbia dovuta a una sfida persa, una competizione andata male e quindi di invidia.

Se non sappiamo perdere, se non accettiamo la sconfitta, non possiamo fare altro che rosicare. Questo rosicamento possiamo dimostrarlo in diversi modi: un silenzio prolungato, uno sguardo arrabbiato, un urlo verso il cielo, un gesto di stizza, devastando la stanza, insulti a destra e a manca, o un gesto di mancata sportività, proprio come quello dei giocatori inglesi che si sono tolti la medaglia dal collo.

Chi ha un atteggiamento di questo tipo viene chiamato rosicone.

Es:

Non fate i rosiconi, può accadere di perdere. Bisogna accettare la sconfitta.

Non si parla sempre di sconfitte vere e proprie però.

Si può trattare anche di pura invidia per i successi altrui. Successi di qualsiasi tipo. Gli ingredienti fondamentali sono due:

1) Quel successo era alla mia portata, potevo anche ottenerlo io

2) Non riesco a accettare, a digerire questa sconfitta.

La ragazza che mi piace si fidanza con un mio amico? Facile rosicare in questi casi. Difficile essere felici per lui. Potevo essere io al suo posto

Sarei potuto essere felicissimo e invece è toccato a lui.

Anche questa è una sconfitta.

Spesso si prende in giro chi rosica. È quello che accade con gli sfottò tra tifosi: si cerca di far rosicare sempre di più chi ha perso.

Tra bambini piccolissimi si usa anche cantare delle canzoncine per far sì che gli altri rosichino:

Io ho vinto e tu no!

Io ho la mamma bella e tu brutta, pappappero!

Adesso ripassiamo:

Ripasso degli episodi passati a cura dei membri dell’associazione Italiano Semplicemente

Irina: Ragazzi mi dispiace ma come sapete sono mancata alla chiacchierata di ieri. Mi è sfuggito qualcosa degno di nota?

Anthony: Eh sì! Hai perso una conversazione vivissima perché sono corsi in molti a partecipare alla conversazione. A quanto pare molti membri scalpitavano per tornare alla carica. Persino Giovanni era in buona forma dopo la sua pausa ludica al mare.

Ulrike: Io invece non sono totalmente d’accordo. Non hai perso granché. Tanto per cambiare c’era Antò a attaccare il solito pippone rispondendo a un dubbio posto durante la conversazione.

Irina: vedo che non siete d’accordo in toto. Ché mi sono persa qualcosa?

Mariana: secondo me dovresti assolutamente fare il possibile per ritagliarti il tempo necessario per partecipare ai nostri incontri video, sempre che tu abbia ancora voglia di migliorare il tuo italiano adoperando le 7 regole d’oro.

Irina: Hai ragione. La prossima volta riuscirò a collegarmi. Non c’è santo che tenga.

573 Attaccarsi

Attaccarsi (scarica l’audio)

Trascrizione

Giovanni: buongiorno ragazzi, c’è una cosa che non dirò mai a nessuno che mi chiederà un consiglio o mi darà un suggerimento su un nuovo episodio:

Attaccati!

Questa è una risposta abbastanza diffusa in tutt’Italia, ed è molto informale.

La versione più conosciuta anche dai non madrelingua è invece:

Arrangiati!

Non è però esattamente la stessa cosa, poiché, come si sa, le espressioni più informali hanno un contenuto emotivo irriproducibile in altro modo.

Il senso è quello, da una parte, di mostrare avversione o antipatia, dall’altra quello di liberarsi di un problema.

Attaccati!” è dunque un invito ironico o polemico ad arrangiarsi e anche rassegnarsi.

Arrangiarsi invece è sicuramente più morbido e può stare anche per “fare del proprio meglio”, “riuscire in qualche modo a farcela”.

Infatti posso anche dire ad esempio:

Voi andate in taxi, non vi preoccupate per me, io mi arrangio e in qualche modo arriverò.

Oppure:

Come te la cavi in cucina? Sai cucinare?

Risposta: mi arrangio.

Come a dire: qualcosa riesco a fare, non sono una schiappa, me la cavo abbastanza.

Arrangiarsi, altre volte, è più simile a “adeguarsi” e, ancora meglio, “rassegnarsi“, quando si perde un’occasione e si rimane male, si resta delusi. Ma spesso bisogna aggiungere qualcosa in più, proprio per indicare quel senso di liberazione, di sfogo e di antipatia, se ad arrangiarsi sono altre persone.

Ecco allora che arriva in nostro aiuto il verbo attaccarsi!

Attaccarsi infatti, usato nella forma di un invito, indica una situazione in cui una persona rimane senza alcuna soddisfazione e si deve conseguentemente rassegnare.

Ci sono vari modi per indicare queste situazioni nella lingua italiana, come ad esempio “restare scornato“, cioè senza le corna.

C’è da dire che attaccarsi ha ovviamente più significati, e nel senso proprio significa afferrare qualcosa, prendere qualcosa.

Questa espressione molto sintetica, composta da una sola parola (attaccati!) deriva infatti in realtà dalla più nota “attaccarsi al tram” che ha lo stesso significato: restare senza soddisfazione, perdere un’opportunità, restare deluso per aver perso un’occasione propizia, soprattutto se invece altre persone hanno ottenuto qualcosa.

Vediamo qualche esempio:

Siamo in discoteca, ci sono due belle ragazze che ballano.

Li vicino ci sono tre ragazzi che vogliono approcciare queste ragazze. Il problema è che sono tre e le ragazze solamente due.

Uno dei tre fa: io ci provo con la bionda.

Un altro dei tre replica: allora io ci provo con la mora.

E il terzo allora fa: ed io mi attacco?

Oppure:

Ed io mi attacco al tram?

Questa è una risposta equivalente, e sarebbe come dire che voi salite sul tram e siccome non c’è posto per me, io mi attacco al tram!

L’origine infatti è proprio questa.

Sapete che un tempo i tram, quei mezzi di trasporto cittadini simili ai treni, possedevano delle sporgenze esterne che potevano utilizzarsi dalle persone che erano in ritardo e che quindi letteralmente si “attaccavano” al tram in corsa.

Ci sono ovvianente anche modalità volgari per esprimere lo stesso concetto, ma ve le risparmio.

Altri esempi:

Molti studenti si iscrivono alla facoltà di medicina ogni anno, per questo motivo si fa un test d’ingresso per selezionare i più meritevoli. Gli altri, ovviamente, si attaccano!

Usate questa modalità solo con gli amici, non perché sia un’espressione volgare, ma perché esiste un’espressione molto volgare con lo stesso senso che inizia proprio così: attaccati al c***o!

Volete un ripasso adesso? Tranquilli, non userò l’espressione di oggi!

Ripasso delle espressioni precedenti a cura dei membri dell’associazione Italiano Semplicemente

Ulrike: Ragazzi sta prendendo corpo l’ipotesi di un nuovo dpcm entro la fine della settimana. I dettagli dello stesso hanno preso forma nella scia della recente impennata di casi legati al diffondersi della variante Delta.

Irina: Ho letto anch’io le diverse indiscrezioni pubblicate sui giornali. Sembra che il governo risponderà con tutta una serie di complesse regole. In extrema ratio, per evitare nuove chiusure, si sta valutando anche la vaccinazione obbligatoria.

Hartmut: Sì. Mi risulta che il decreto verterà sulle nuove regole per l’uso della certificazione verde, la cosiddetta Green pass. E fossi in te non mi preoccuperei più di tanto. Tanto più complesse sono le regole, meno sono attuabili e più velocemente saranno abbandonate.

Sofie: solamente poche settimane fa eravamo in molti a cantar vittoria. Ormai ci troviamo di nuovo In una corsa alle vaccinazioni entro l’arrivo dei periodi freddi in cui ci tappiamo in casa.

Komi: e dire che ci sono ancora dei no-vax!!

Albéric: Non me ne volete ma io personalmente sia di questa pandemia che dei “no vaxne ho fin sopra i capelli. Non so se riuscirò ad abbozzare questa situazione molto più a lungo.

Mariana: Io ho la soluzione che farà per te però. Scarica la tua green pass e prendi e vai in Molise, alla riunione di Italiano Semplicemente. C’è pochissima gente e tanto verde. Se tanto mi dà tanto, lì vai sul sicuro.