C’è un posto, poco fuori Napoli, che pochi conoscono ma che un tempo fu il cuore pulsante della modernizzazione industriale del Regno delle Due Sicilie: l’opificio di Pietrarsa.
Affacciato sul mare, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, questo grande complesso fu inaugurato nel 1840 da Ferdinando II di Borbone per costruire locomotive, binari e carrozze ferroviarie, in un’epoca in cui l’Italia ancora non era unita. Era un vanto, un simbolo di progresso, il primo stabilimento ferroviario italiano.
Ma ventitré anni dopo, nel 1863, proprio il giorno 6 agosto, qualcosa cambiò drasticamente. L’Italia era ormai unificata da poco, e Pietrarsa era passata sotto il controllo dello Stato italiano. Alla direzione dell’opificio venne messo Jacopo Bozza, un uomo tutto d’un pezzo, rigoroso, forse troppo. Bozza decise di riorganizzare l’azienda: riduzione dei salari, aumento dell’orario di lavoro e… licenziamenti a pioggia. Una riforma, diceva lui, necessaria. Un attacco, dissero gli operai.
È a questo punto che si può usare con precisione chirurgica l’espressione italiana “dare addosso”. Sì, perché quegli operai, che avevano costruito con fatica e orgoglio il futuro del Mezzogiorno, cominciarono uno sciopero pacifico per protestare contro queste nuove condizioni insostenibili. La risposta dello Stato non fu il dialogo, ma la violenza.
I soldati arrivarono a Pietrarsa e diedero addosso agli scioperanti: aprirono il fuoco. Sette morti, più di venti feriti gravi. Non si trattava solo di “punire” o di ristabilire l’ordine. Si trattò di una vera aggressione, una repressione che passò alla storia come uno degli episodi più tragici e meno conosciuti del primo periodo postunitario.
Ecco un esempio forte, concreto, drammatico di cosa vuol dire dare addosso a qualcuno. Non solo aggredirlo fisicamente, ma anche attaccarlo in modo sproporzionato, senza possibilità di replica. E non serve arrivare ai fucili: si può “dare addosso” anche con le parole, con le critiche continue, con l’ostilità gratuita.
l’espressione “dare addosso a qualcuno” si usa quindi per indicare un attacco, una forma di aggressione, che può essere fisica, ma anche verbale o psicologica. È un modo di dire molto comune e può essere usato in tanti contesti quotidiani, non solo in casi drammatici come quello dell’opificio di Pietrarsa.
Può riferirsi a un datore di lavoro che tratta male un dipendente, a un gruppo di persone che critica qualcuno ingiustamente, o anche semplicemente a un amico che ci accusa senza motivo. Basta che ci sia un’azione dura e insistente contro qualcuno.
La prossima volta che qualcuno ti critica in modo esagerato, potrai dire: “Perché mi stai dando addosso?”
O magari, ascoltando un telegiornale, capirai meglio espressioni come: “La stampa ha dato addosso al politico” o “I tifosi hanno dato addosso all’allenatore dopo la sconfitta”. Dopo l’espressione si può usare la preposizione a (dare addosso a qualcuno) oppure usare la parola “contro” (dare addosso contro qualcuno).
Pensateci la prossima volta che, in ufficio, vi danno addosso per un ritardo o per un errore che magari nemmeno avete commesso. E ricordate quei lavoratori di Pietrarsa, che con il loro sacrificio hanno scritto, loro malgrado, una delle prime pagine amare dell’Italia unita.
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Giovanni: c’era una volta, nell’antica Grecia, un politico e oratore ateniese di nome Demostene.
Demostene era un oratore, quindi professava l’arte oratoria. Si dice oratore anche una persona che possiede le doti necessarie per parlare con una certa efficacia a un pubblico o a un’assemblea. Un oratore è insomma uno bravo a parlare in pubblico.
Cicerone, ad esempio, è stato il più famoso oratore romano, ma anche Demostene in Grecia nonera da meno. Gli oratori fanno le orazioni, che sono appunto dei discorsi pubblici.
Allora, Demostene, in particolare, amava parlare del suo grande avversario: Filippo II di Macedonia. Era il suo bersaglio preferito il re Filippo, che era il re di Macedonia ma anche il padre di Alessandro Magno, per intenderci.
Un’immagine sorridente di Filippo II di Macedonia, ora che Demostene non gli riserva più le sue filippiche
Ne parlava così tanto e con tanta enfasi, che queste orazioni contro di lui vennero chiamate con un nome che è tutto un programma: filippiche.
Quando si dice “un nome che è tutto un programma” si vuole dire, in forma ironica, che dal nome si capisce già tutto.
Ma perché vi sto parlando delle filippiche di Demostene?
Perché il termine filippica è sopravvissuto fino ai giorni nostri, anche se nessuno o quasi ne conosce l’origine.
La filippica nasce dunque come una orazione, o se vogliamo, un discorso pubblico pronunciato con passione, ma è un vibrante discorso di accusa.
Una filippica ha dunque un obiettivo preciso. È una imprecazione contro una persona, una invettiva, un discorso aspramente polemico.
Quando si fa una filippica, o quando si “attacca” una filippica contro qualcuno (si usa spesso, per inciso, il verbo attaccare) si inveisce contro qualcuno, che è il bersaglio della filippica.
A volte si parla anche di paternale, più familiare come termine, o anche di sermone.
La paternale (che viene da padre) però è più intesa come un grave e severo rimprovero da parte di un “superiore” di diverso tipo, come appunto di un genitore con un figlio.
il professore ha fatto una paternale agli studenti impreparati.
Il sermone invece è un discorso sacro, oppure un componimento poetico morale e satirico, ma spesso viene usato per indicare un noioso rimprovero, un lungo discorso fatto per rimproverare una persona.
Anche un semplice lungo discorso può chiamarsi sermone: è monotono e interminabile, anche senza che ci sia un’accusa.
Ogni Natale è la stessa storia: ci dobbiamo sopportare i sermoni del nonno sulla famiglia che non è più come quella di una volta… non ne posso più dei suoi sermoni!
Il sermone quindi è lungo e noioso, la paternale invece è fatta da un “superiore” al fine di rimproverare e correggere altri. Nell’esempio del nonno andava bene usare anche la paternale. Dipende da ciò che si vuole sottolineare.
La filippica invece? Che caratteristica ha?
È più vicina al sermone nel senso che si tratta di un lungo discorso che però è sempre accusatorio, ha sempre un bersaglio, come la paternale, che però è fatta sempre da un “superiore” contro un “inferiore”.
La filippica è anche simile al “pippone“, non molto elegante come termine.
Ricordate l’espressione attaccare ilpippone? Ce ne siamo occupati qualche tempo fa.
Spesso sono intesi nello stesso identico modo, nel senso che anche il pippone può essere fatto (o attaccato) contro qualcuno, ma la caratteristica del pippone, oltre alla lunghezza e la pesantezza, è che si tratta di un discorso unidirezionale, quindi non è prevista una risposta da parte di chi ascolta. È difficile liberarsi da una persona che ti attacca un pippone su un qualsiasi argomento.
Questa è la caratteristica più importante del pippone.
La filippica è anch’essa lunga e noiosa, ma è sempre polemica e accusatoria. È fatta con toni aspri, spesso con risentimento, e non è richiesta l’arte oratoria di Demostene.
Vi riporto alcuni esempi:
Il mio amico mi ha attaccatounafilippica incredibile perché sono arrivato con cinque minuti di ritardo.
Quante persone in tv attaccanofilippiche contro o a favore del green pass?
C’è da dire che se uso il termine filippica, come negli altri casi, sto dando un giudizio negativo al discorso di accusa e significa che non sono d’accordo con chi la fa.
Altri termini simili sono lapredica e la ramanzina.
Anche la predica nasce come discorso di chiesa, fatto da un prete e diretta ai fedeli, per indirizzarli verso la fede, ma più in generale anche la predica assume la forma del lungo rimprovero.
Fare una predica è molto simile a fare la paternale.
Anche con la predica c’è in genere una parte che si sente superiore (non necessariamente però lo è).
Si può trattare anche di una serie di consigli, ma ci sono anche ammonimenti, rimproveri: questo si fa, quest’altro non si fa; non è educato fare questo, mentre è buona educazione fare quest’altro; che sia l’ultima volta che vedo una cosa del genere!
Spesso ci si lamenta di un tono di fastidiosa superiorità quando si parla di una predica ricevuta:
Sono stanco delle tue prediche!
Basta con queste prediche!
Mi vuoi fare la predica anche oggi?
La ramanzina è più leggera, ma resta comunque un lungo rimprovero carico di risentimento e di giudizio dal contenuto spesso su una questione morale:
Mia madre mi ha fatto la solita ramanzina perché mi ha beccato ancora una volta a fumare una sigaretta.
Una ramanzina è lunga come un lungo racconto: un romanzo, appunto.
Si potrebbe aggiungere la pappardella. Manca l’aspetto del lungo rimprovero, del giudizio, ma è un discorso lungo e noioso pure la pappardella, abbastanza vicina al più serioso sermone.
Non la voglio fare troppo lunga adesso. Vi lascio al ripasso del giorno.
Hartmut: vi confido un segreto. Non lo dite a nessuno però perché potrebbe costarmi un’amicizia: ho notato che… no, vabbè, scusate ma… proprio me non me la sento di sacrificare un amico per così poco.
Albéric: a proposito di segreti, ho una voglia smodata di dirvi che… hai ragione, non posso neanch’io abbassarmi a tanto!
Rafaela: ma cosa vi prende oggi? A cosa si deve tutta questa riservatezza?
Irina: secondo me siete solo due paraventi! Ma a me non la si fa! So bene che state alludendo al fatto che Giovanni, in questo episodio, secondo voi ha dimenticato di parlare del cazziatone. Ma siete smemorati? Ne ha già parlato nell’episodio dedicato al verbo cazziare. Sono sicuro che invece che di qui a poco ci avrebbe ricordato che anche il cazziatone è una particolare forma di predica, filippica o ramanzina che dir si voglia. Vero presidente? Vuoi entrare nel merito adesso?
Giovanni: emm… Sì, certo, chiaramente! Mi spiace aver dato adito a dubbi in merito! Grazie comunque Irina, ti devo un favore!