Accadde il 1° dicembre 1964: la sbavatura

La sbavatura (scarica audio)

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Totò Schillaci nasce il 1° dicembre 1964 ed è famoso per il mondiale di calcio del 1990 e per i suoi occhi sgranati. Ricordate gli occhi a palla di Schillaci?

Schillaci, occhi a parte, è stato un attaccante fenomenale, ma ogni tanto, come anche altri campioni, ha commesso ovviamente qualche sbavatura nelle conclusioni a rete. Queste sbavature hanno a volte fatto storcere il naso ai tifosi. Niente di grave, no?

La sua carriera è stata splendida. Certo, peccato per come è finito il mondiale italiano del 1990, dove l’Italia era fortissima. Un vero peccato!

Le poche sbavature, come qualche gol sbagliato di troppo, non ne hanno intaccato la leggenda.

Oggi parliamo dunque del termine sbavatura.

Negli esempi fatti la parola sbavatura funziona come una sorta di “macchia leggera” nella sua performance, senza essere un giudizio negativo complessivo.

Somiglia alla parola errore, ma non è esattamente un errore.

Sbavatura deriva dalla bava, cioè la saliva che “scola” o “sbava” fuori dai contorni. Oppure è una traccia che “esce fuori dal bordo”, come la vernice che sborda da una linea, l’inchiostro che si allarga, una stampa non perfetta.

Iniziamo nel dire che è una parola che è più adatta parlando di lavori manuali.

Gli artigiani o gli artisti che scolpiscono la pietra o chiunque debba fare un lavoro che richiede molta precisione, possono fare sbavature.

Il lavoro è quasi perfetto: il legno è ben levigato, la struttura è solida, il colore è uniforme.

Ma su un lato, vicino a una giuntura, si nota una piccola colatura di vernice, quasi invisibile ma presente. Non rovina il lavoro, non compromette nulla, non pregiudica la bontà del lavoro: è solo una piccola imperfezione, una sbavatura.

Ecco il senso della parola:
sbavatura = piccola imperfezione materiale, un difetto minore, spesso legato a manualità, cura del dettaglio o finitura. Un perfezionista comunque proprio non le sopporta le sbavature!

Ma non è grave, non cambia il risultato, ma si vede e rientra nella categoria delle “piccole cose da migliorare”.
È naturale, umano, quasi inevitabile fare una sbavatura.

Essa riguarda più la qualità estetica o la precisione del lavoro che la correttezza del risultato.

È spesso legata a: pittura, artigianato, costruzioni, disegno, cucina, fotografia.

Un altro esempio:

Il tavolo è bellissimo, ha solo una sbavatura di colla su un angolo.”

Si direbbe che il senso della parola sbavatura si avvicini ad errore.

Un errore come sapete è qualcosa di oggettivamente sbagliato, che cambia un dato, un risultato, una misura o un contenuto.

Può essere grave o lieve, ma riguarda la sostanza, non riguarda l’estetica. Ciò non toglie che parlando di una sbavatura si potrebbe parlare di un piccolo errore.

In genere però errore è più grave, anche se piccolo:

Es: Il tavolo è più lungo di un centimetro rispetto allo spazio che abbiamo: questo è un errore.

Ci sarebbero anche un paio di parole simil: refuso e svista.

Refuso, come abbiamo già visto in un episodio, è un tipo molto particolare di errore: un errore di scrittura, come una lettera invertita, una parola incompleta, una doppia mancata. Succede nei testi digitati o stampati.

Esempio:
“Il catalogo ha un refuso: hanno scritto ‘verince’ invece di ‘vernice’.”

La svista poi serve a giustificare un piccolo errore o un refuso.

Invece, se un pittore dipinge una porta: il risultato è ottimo, ma vicino alla maniglia rimane un piccolo segno di pennello più spesso. È una sbavatura.

Una torta è buonissima e cotta bene, ma sul bordo c’è una striscia di crema uscita di lato. È una sbavatura.

Uno scultore lucida una statua: perfetta, ma in un punto si nota un tratto leggermente meno liscio. È anche questa una sbavatura.

Un fotografo stampa una foto splendida, ma in un angolo rimane una lieve ombra indesiderata. Ancora una sbavatura, ma siamo al limite in questo caso.

In tutti questi casi, il lavoro è fatto bene, semplicemente ci sono piccole imperfezioni di finitura.

Dunque l’errore riguarda la correttezza, il “refuso” riguarda solo la scrittura, mentre “sbavatura” riguarda la finitura, la precisione estetica, la manualità.

C’è anche una similitudine con il termine “neo“, parola a sua volta oggetto di un episodio.

Neo e sbavatura, è vero, hanno in comune l’idea di un piccolo difetto che spicca in un contesto comunque buono, ma un neo è difetto vero, spesso di poca importanza ma si nota di più, perché è un limite vero e proprio.

Ad esempio:

A Italia ’90 Schillaci quasi non ebbe sbavature: tutto quello che toccava diventava gol.

Il vero neo della sua carriera, però, fu la difficoltà a confermare quei livelli nelle stagioni successive.

Accadde il 30 novembre 1786: fatale e fatidico

Fatale e fatidico

Audio in preparazione

Trascrizione

Per spiegare bene la differenza tra fatale e fatidico, che è l’obiettivo di oggi, possiamo partire da un importante fatto accaduto in Italia il 30 novembre, e precisamente voglio parlarvi dall’abolizione della pena di morte nel Granducato di Toscana nel lontano 1786, quando il sovrano, il Granduca Pietro Leopoldo decise di cancellare per sempre quel tipo di condanna. È il primo Stato al mondo ad aver fatto questo. Pensate un po’.

L’influenza dell’ulluminismo fu decisiva per la decisione di Leopoldo.

Pensatori come Cesare Beccaria avevano scritto contro la pena di morte, sostenendo che non fosse né giusta né efficace nel prevenire i crimini. Leopoldo fu influenzato da queste idee e volle applicarle nel suo Granducato. Tanto di cappello!

Possiamo dire che si meritò, qualche anno dopo, il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero, che assunse con il nome di Leopoldo II.

Il Sacro Romano Impero, per la cronaca, era uno Stato di epoca medievale e moderna, nato nel 962 e sciolto nel 1806.

Era un impero cristiano dell’Europa centrale, dominato dagli Asburgo negli ultimi secoli.

Questa data del 30 novembre 1786 è un evento che la Toscana ricorda ancora oggi con la cosiddetta festa della Toscana, come memoria dell’impegno per i diritti umani e per la giustizia.

Bene, fatto l’inquadramento storico, parliamo della differenza tra fatale e fatidico.

Se diciamo che quella riforma fu un momento fatidico, intendiamo che segnò una svolta decisiva, quasi un momento “annunciato dal destino”, che segnò il passaggio a un nuovo modo di concepire la giustizia.

Fatidico, infatti, non è legato alla morte o alla distruzione, come fatale, ma alla profezia, al cambiamento, a un passaggio cruciale.

Fatidico è un aggettivo che viene dal latino fatum e indica qualcosa che annuncia o segna un momento importante, un cambiamento nella vita o nella storia, come se ci trovassimo davanti a qualcosa destinato a cambiare la storia.

C’è da dire fatidico si usa anche scherzosamente, per indicare qualcosa di molto atteso o desiderato.

Es:

Oggi è il giorno che hai aspettato da tempo, cioè “è giunto il giorno fatidico.

Oppure si può parlare di um” momento fatidico”.

Es: il momento fatidico si avvicina, finalmente ti sposerai!

Se invece prendiamo un evento tragico, ad esempio un incidente mortale o una decisione sbagliata che porta a conseguenze irreparabile, useremmo l’aggettivo fatale.

Fatale viene sempre da fatum, ma ne conserva il lato cupo, quello del destino che non perdona.

Un errore fatale è un errore che produce danni irreversibili; un colpo fatale è un colpo mortale. Non necessariamente però deve morire qualcuno. È sufficiente qualcosa di irreparabile.

È un aggettivo che si usa quando la conclusione dell’evento è, appunto, la morte o comunque una perdita grave.

Un errore fatale può costare la vita ma può costare anche la perdita del lavoro o la rottura di un matrimonio o anche la sconfitta in una partita.

Pensate che questo aggettivo può essere usato anche per descrivere una persona dall’attrazione irresistibile, che, possiamo dire, può far commettere un errore fatale a un’altra persona: parlo della classica “donna fatale”, ma anche in quel caso si percepisce una sfumatura di pericolo.

La differenza, dunque, è nella natura del destino che viene evocato: fatidico è il destino come rivelazione, momento decisivo, svolta importante; fatale è il destino come esito negativo, inevitabile e spesso distruttivo.

Anche altri esempi aiutano a fissare la distinzione.

Un ragazzo che supera un concorso che gli cambierà la vita potrebbe dire che quello è stato un giorno fatidico, perché da lì in poi tutto è cambiato.

Un motociclista che sbaglia una curva potrebbe parlare invece di un istante fatale, perché quel gesto ha provocato un danno irreparabile.

Chi decide di trasferirsi all’estero e trova lì l’amore della vita può ricordare quel viaggio come un momento fatidico; chi perde tutto per una scelta impulsiva potrebbe parlare di una scelta fatale.

Ricapitolando, l’origine dei due aggettivi è dunque la stessa: fatum, ciò che “è stato detto” dagli dèi, cioè il destino. Fatale però riprende l’idea del destino ineluttabile e spesso funesto; fatidico invece richiama l’idea di qualcosa di profetico, che anticipa un passaggio importante.

E così, tornando al 30 novembre 1786, possiamo dire che quella decisione del Granducato fu un gesto fatidico, perché aprì una strada nuova nella storia della civiltà giuridica. Nulla a che vedere con un gesto fatale, che invece descriverebbe un evento drammatico, rovinoso, un punto di non ritorno nel senso negativo del termine.

Dopo il Granducato di Toscana, che come ho detto fu il primo Stato moderno ad abolire la pena di morte con legge nel 1786, fiversi altri Stati e territori nel corso dell’Ottocento e del Novecento seguirono quella scelta. Ad esempio, nel XIX secolo San Marino, uno tra i più antichi; anche alcuni stati europei come Paesi Bassi, Portogallo, e Romania eliminarono la pena capitale.

Poi, nel corso del XX e XXI secolo, il fenomeno si è diffuso largamente e oggi molti Stati nel mondo, ad esempio la quasi totalità dell’Europa, non applicano più la pena di morte.

Terminiamo con un ripasso

Possiamo dire che il Granducato di Toscana fu foriero di un cambiamento storico, perché la sua decisione di abolire la pena di morte anticipò e annunciò una tendenza che altri paesi avrebbero seguito in seguito.

L’italofonia e la pronuncia delle preposizioni apostrofate

L’italofonia e la pronuncia delle preposizioni apostrofate (scarica audio)

Trascrizione

PRONUNCIA DELL'ITALIANO

In questo episodio di Italiano Semplicemente voglio affrontare un problema comune degli stranieri non madrelingua: la pronuncia e la scrittura delle preposizioni con l’apostrofo, a cui abbiamo dedicato in passato anche due episodi “l’apostrofo nella lingua oitaliana: prima parte“, “seconda parte“). C’è anche un episodio per principianti nella rubrica “primi passi“.

Ho notato infatti che molti stranieri non madrelingua tendono a sbagliare sia la scrittura che la pronuncia in questi casi. Nel caso della scrittura, l’errore consiste spesso nel cambiare la preposizione, così ad esempio, “la casa dell’amico di Paolo” diventa “la casa del Amico di Paolo”, omettendo l’apostrofo, e cambiando la preposizione, che da “dello” diventa “del”. Lo stesso vale per all’, nell’, sull’, dall’. La pronuncia in questi casi non dovrebbe essere staccata, e infatti l’apostrofo si usa proprio per questo: per non staccare le due parole. Ad esempio:

  • Vado all’aeroporto.

  • Arrivo all’università.

  • Sono all’ingresso.

  • Mangiamo all’aperto.

  • Ci vediamo all’angolo.

  • Passo all’azione.

Allora oggi vi racconto un evento recente che riguarda qualcosa di molto “italiano” per cercare di correggere questo piccolo difetto. Con l’occasione ripassiamo anche altri episodi passati e facciamo degli esercizi di pronuncia.

Vi parlo della recente conferenza sull’Italofonia (attenzione, ho detto “sull’italofonia, e non sul italofonia”. (Ripeti dopo di me: conferenza sull’italofonia).

Bene, intanto che significa italofonia?

Italofonia significa “l’insieme delle persone e dei Paesi in cui si parla l’italiano”, sia come lingua madre sia come lingua straniera.

Si tratta della prima Conferenza Internazionale dell’Italofonia, durante la quale è stata istituita la Comunità dell’Italofonia, (Ripeti dopo di me: comunità dell’italofonia) con l’obiettivo di promuovere la lingua italiana nel mondo come lingua di dialogo, cultura e identità.

In occasione di questo evento, molti commentatori, da addetti ai lavori a cittadini, hanno sicuramente pensato all’uso della nostra lingua oggi (Ripeti dopo di me: hanno pensato all’uso della nostra lingua).

Non so in realtà se sia stato discusso anche della necessità di rafforzare lo studio e la cura dell’italiano, (Ripeti dopo di me: la cura dell’italiano). In particolare questo sarebbe stato utile per contrastare errori frequenti: dall’uso scorretto dell’apostrofo a imprecisioni lessicali (Ripeti dopo di me: dall’uso scorretto dell’apostrofo).

Di sicuro si è parlato dell’italiano come “lingua della pace” (Ripeti dopo di me: si è parlato dell’italiano)

Questa situazione appare ai miei occhi come una bella occasione per fare un personale “mea culpa” per non aver affrontato prima questo argomento e per riflettere su come si scrive e si parla correttamente la lingua italiana.

Mi raccomando, se non l’hai ancora fatto, di ripetere ad alta voce le frasi che di volta in volta ti propongo. In questo modo ti potrai accorgere nell’immediato di eventuali errori nella pronuncia (Ripeti dopo di me: nell’immediato).

Alla notizia di questa conferenza, mi sono detto: “Vada per l’impegno di valorizzare l’italiano”, perché credo che l’italofonia non sia soltanto una questione di orgoglio, ma anche di responsabilità.

All’occorrenza (Ripeti dopo di me: all’occorrenza) cioè quando qualcuno dei nostri amici all’estero mi chiederà come parlare “bene” l’italiano (Ripeti dopo di me: amici all’estero) non mi basterà proporre una parvenza di conoscenza solida: che me ne faccio di frasi preconfezionate se poi non si avverte la differenza tra “all’improvviso” e “al l’improvviso”? (Ripeti dopo di me: all’improvviso).

Invero, mi ritrovo a pensare che molti stranieri non madrelingua probabilmente siano in alto mare, perché ignorano che l’apostrofo non è un’opzione, ma una questione d’ortografia che può fare la differenza. Secondo un’indagine recente, quasi sette italiani su dieci commettono errori grammaticali (figuriamoci gli stranieri!), dall’apostrofo al congiuntivo, dalla punteggiatura alla concordanza (Ripeti dopo di me: dall’apostrofo al congiuntivo).

Così, all’indomani della conferenza, (Ripeti dopo di me: all’indomani della conferenza) ho deciso di farci un bell’episodio. Voglio metterci la faccia, mi sono detto, perché posso aiutare i non madrelingua a migliorare la pronuncia e a farli scrivere facendo meno errori possibili.

Voglio che quelle parole, quelle costruzioni, quelle preposizioni articolate suonino come musica all’orecchio di chi ascolta (Ripeti dopo di me: musica all’orecchio di chi ascolta).

E se qualcuno osa dire “questo non l’hai spiegato bene”, in futuro saprò rispondere con cognizione di causa.

Allora, bisogna dire anche la regola, anche se normalmente le regole non sono all’ordine del giorno in Italiano Semplicemente. (Ripeti dopo di me: non sono all’ordine del giorno).

Quando la preposizione semplice + un articolo determinativo si combina con un sostantivo o pronome che comincia per vocale, l’articolo si elide e l’apostrofo è obbligatorio: dell’italiano, all’occorrenza, dell’amore (Ripeti dopo di me: dell’italiano, all’occorrenza, dell’amore).

Per alcuni stranieri poi la capacità di pronunciare correttamente queste particolari forme è il proprio “tallone d’Achille” (Ripeti dopo di me: il tallone d’Achille). In questo caso si tratta di preposizione semplice apostrofata.

Allora, personalmente, vorrei che questo episodio, che parte da un evento reale, attuale, suoni come un “campanello d’allarme” (Ripeti dopo di me: campanello d’allarme), un invito a non dare per scontato l’italiano, a non ricorrere alle scorciatoie dell’approssimazione o della comodità (Ripeti dopo di me: le scorciatorie dell’approssimazione).

Spero che questo tipo di episodi vi faccia piacere e all’occorrenza, non mancherò dall’aggiungerne altri (Ripeti dopo di me: all’occorrenza) allargando via via l’orizzonte dell’apprendimento e dell’italofonia (Ripeti dopo di me: l’orizzonte dell’apprendimento e dell’italofonia).

Continuate ad esercitarvi, restando all’ascolto degli episodi di Italiano Semplicemente (Ripeti dopo di me: restando all’ascolto) perché dall’esperienza nasce sempre qualcosa (Ripeti dopo di me: dall’esperienza nasce sempre qualcosa), e così sull’onda dell’entusiasmo continueremo all’infinito (Ripeti dopo di me: sull’onda dell’entusiasmo continueremo all’infinito).

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Accadde il 26 novembre: fuor di metafora

Fuor di metafora (scarica audio)

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Il 26 novembre 1972 nelle Marche, una regione da visitare assolutamente (ve lo dico fuor di metafora) si verificò il terremoto di Montefortino, un evento drammatico, come potete immaginare.

Questo, lo avrete anche questo immaginato, è utile come spunto per capire l’espressione “fuor di metafora”, che significa semplicemente “senza mezzi termini”, “esplicitamente”, cioè lasciando da parte ogni immagine figurata e tornando alla realtà dei fatti.

Di immagini figurate ne uso spessissimo su italiano semplicemente, sopratutto perché l’obiettivo è spiegare il significato di espressioni figurate.

Se dico che “quel giorno la terra sembrò un gigante che si sveglia”, sto usando una metafora.

Ma se subito dopo aggiungo: “fuor di metafora, molte case ebbero crepe e diverse famiglie furono evacuate, con sofferenze indicibili”, allora sto chiarendo ciò che accadde davvero, in termini letterali.

L’espressione si usa in particolare quando in un primo momento abbiamo parlato in modo metaforico e poi, successivamente, vogliamo essere chiari.

Possiamo usare questa espressione nella conversazione quotidiana, ma è più adatta nella scrittura formale o in occasioni professionali, quando serve evitare equivoci.

È un modo elegante per dire “parlando chiaro, ecco cosa intendo davvero”.

Alternative possibili sono: “in concreto”, “senza metafore”, “parlando chiaro”, “esplicitamente”, “senza mezzi termini”.

Poi esistono modalità apparentemente simili come “fuori dai denti” e “senza peli sulla lingua“, “dire pane al pane, vino al vino” che però riguardano il tono e hanno più a che fare con la franchezza e la schiettezza: significano dire qualcosa con franchezza brusca, spesso senza troppi filtri, quasi brutalmente.

Non ha a che fare con le metafore, ma con il modo schietto di parlare.

Usare “fuor di metafora” anziché “al di fuori di ogni metafora” invece è una scelta di stile, non di significato. È più elegante e suona anche meglio. Non trovate?

Ripasso: la violenza contro le donne

Ripasso (scarica audio)

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Bentrovati a tutti gli ascoltatori di Italiano Semplicemente.

Oggi cogliamo l’occasione della giornata contro la violenza sulle donne per ripassare qualche episodio passato della rubrica “due minuti con Italiano Semplicemente” e non solo.

Davanti al Ratto di Proserpina di Bernini (mica pizza e fichi) dove per la prima volta una lacrima si palesa sul volto di una donna scolpita nel marmo, è impossibile non fare presente che quella goccia è, oltre ad arte pura, anche indice emblematico di una violenza che, con tutto che qualcuno la ritenga opinabile o soggettiva, è invece inerente alla storia dell’umanità, quasi insita in certi comportamenti che, a dir poco, passano il segno e trascendono ogni giustificazione.

E mentre un’orda di giustificazioni velleitarie continua a imperversare: “era un altro tempo”, “si faceva così”, “non esageriamo”, “è una questione di DNA, gli uomini non possono farci niente”, io, il qui presente Giovanni, mi chiedo: cosa bolle in pentola se ancora oggi, sui social, c’è chi pontifica senza cognizione di causa, chi predica bene e razzola malissimo, chi cerca di infinocchiare l’ascoltatore con dietrologie e montature che non stanno in piedi?

Sulle prime, uno può pensare che sia soltanto un andazzo, una sbandata collettiva, ma poi la sequenza delle notizie parla chiaro: una cosa tira l’altra, da cosa nasce cosa, e si ricade negli stessi errori, corsi e ricorsi storici che lasciano una caterva di rancore e animosità. Sfido io che poi qualcuno si fascia la testa e chiede il “beneficio del dubbio”, come se l’accortezza e il rispetto fossero optional.

Visto e considerato tutto ciò, sarebbe bene che, a bocce ferme, ognuno facesse il proprio mea culpa e smettesse di crogiolarsi nell’idea che la violenza sia inevitabile, una sorta di destino atavico. Non è così: bisogna smetterla di sentirsi “arci” qualcosa, tipo arcistufo delle lamentele, di mostrarsi profusamente offesi al minimo richiamo e di targare ogni critica come attacco personale.

Perché, se non vado errato, alla fine le donne non devono spuntarla, non devono cavarselaper il rotto della cuffia”: devono semplicemente vivere, indenni, senza dover sondare il terreno ogni volta che escono, senza ritrovarsi teatro di prepotenze, senza subire il dispendio emotivo di chi le costringe a tenere botta giorno dopo giorno.

E allora sì, davanti a quella lacrima scolpita, è bene fissare un punto, una sorta di tagliando morale: il rispetto non è opinabile, non è contestabile e non dovrebbe essere oggetto di trattativa. È il minimo sindacale per una società che voglia definirsi civile.

Detto ciò, che ciascuno se la segni e se la leghi al dito: quella lacrima, nel marmo, è lì per ricordarci che la violenza, ieri come oggi, non è arte, non è mito, non è storia: è una vergogna! Diciamolo una volta per tutte!

E adesso tocca ai membri dell’associazione Italiano Semplicemente:

Marcelo: Oggi è la Giornata contro la violenza sulle donne, e come uomo, penso che sia fondamentale creare consapevolezza, rompere gli indugi e promuovere azioni concrete affinché tutti possano comprendere che si tratta di una lotta che spetta a ognuno di noi.

Anne Marie: Sono assolutamente d’accordo con te! Dichiaro guerra all’indifferenza di fronte a qualsiasi tipo di violenza: fisica, psicologica, sessuale, economica, e chi più ne ha, più ne metta.

José: A chi lo dici! Ho visto personalmente come mia zia subiva diversi tipi di violenza, con tutti gli annessi e connessi! Le sue preghiere si libravano in cielo ogni sera perché i suoi figli non se ne rendessero conto! Quando suo marito è morto, lei è sembrata rinascere e da quel momento si è consacrata alla difesa delle donne!

Julien: Grazie per aver condiviso tutto questo. So che questa è una crociata che deve continuare, e ognuno di noi può fare la differenza. Prendere posizione contro la violenza è un caposaldo che nessuno dovrebbe abbandonare!

Carmen: L’impegno delle istituzioni, della scuola, della famiglia e dei social può contribuire a una maggiore consapevolezza e a essere la garanzia di una cultura di rispetto e eguaglianza.

Accadde dal 19 al 24 novembre 2024: “atteso che”, “attesoché”

Atteso che, attesoché (scarica audio)

Trascrizione

Bentrovati a tutti gli ascoltatori di Italiano Semplicemente. Siamo a Malaga, novembre 2024. Settimana dal 18 al 24 novembre.

Tranquilli, anche a Malaga l’Italia c’entra, eccome!

Parliamo di tennis e di coppa Davis. Già nel 2023 la coppa era stata vinta dall’italia, ma evidentemente non bastava agli azzurri.

In campo ci sono Jannik Sinner e Matteo Berrettini, che battono l’Olanda 2-0 e sollevano la Coppa Davis 2024 per il secondo anno consecutivo.

Poi, come sappiamo, arriverà anche il trionfo del 2025, questa volta a Bologna, in casa, tanto che qualcuno arriverà a parlare persino di “era azzurra della Davis”.

Ed è proprio prendendo spunto da queste vittorie che oggi parliamo della locuzione “atteso che”. Una locuzione piuttosto formale. Si può scrivere anche in un’unica parola: attesoché, con l’accento sulla e finale.

Ma attenzione: “atteso”, in questo caso, non ha nulla a che fare con l’atto di attendere, di “aspettare qualcuno” o “aspettare qualcosa”, come attendere la prossima vittoria.

No. Non c’entra niente.

“Atteso che” significa semplicemente “considerato che”, “visto che”, “dato che”, siccome, poiché.

È una formula più che altro giuridico-amministrativa, alquanto formale, usata quindi in documenti ufficiali, delibere, regolamenti, e raramente nel parlato comune.

Se lo fate, per carità, è italiano corretto, ma insomma, non c’è bisogno, visto che esistono le alternative più colloquiali già citate: visto che, considerato che, dato che, tenuto presente che (meno informale), e le ancora più colloquiali siccome e poiché.

Un esempio adatto pottrebbe essere:

Atteso che Giovanni non possiede tutti i requisiti previsti per poter essere considerato un professore di italiano, la sua domanda è inammissibile.

Tornando alla coppa Davis, un giornalista o un esperto di tennis potrebbe comunque affermare:

Attesoché l’Italia aveva già trionfato nel 2023, la stampa internazionale guardava con grande attenzione alla Final 8 del 2024.

Poi, attesoché Berrettini rientrava da un infortunio ma mostrava un’ottima condizione, il capitano Volandri decise di schierarlo nella finale.

Nel 2025 invece, atteso che la finalissima si è disputata in casa, a Bologna, la squadra ha sentito una motivazione diversa.

Vediamo però altri esempi non sportivi, in contesti più adatti, per far capire bene l’uso di questa locuzione.

Attesoché i fondi sono limitati, il Comune approva solo i progetti considerati urgenti.

Attesoché la riunione non è più rimandabile, si convoca il personale per domani alle 9.

Atteso che il richiedente adesso possiede tutti i requisiti, la domanda può essere accolta.

Noterete che queste frasi hanno tutte la stessa struttura:

-una premessa certa e oggettiva,

-una conseguenza, spesso formale e spesso decisa da un’autorità.

Atteso che” si usa quindi preferibilmente:

– in atti ufficiali,

– in delibere di enti pubblici,

– in verbali, determine, ordinanze, regolamenti,

– in comunicazioni istituzionali o in testi che vogliono imitare quel tono.

Nel linguaggio normale, quotidiano, risulterebbe troppo pesante o addirittura ironico:

Atteso che hai fame, ti faccio un panino.

Molto comico, poco naturale.

Atteso che piove, portati l’ombrello.

Suona come una parodia della burocrazia.

Il motivo per cui “atteso che” non significa “aspettato che” è che” atteso”, qui, è un participio passato antico.

È una forma cristallizzata del linguaggio giuridico.

In poche parole, è un “atteso” che non fa attendere nessuno.

Insomma, atteso che ormai l’Italia è una potenza mondiale della Coppa Davis, atteso che questa espressione continua a creare dubbi agli stranieri, e atteso che da una competizione tennistica si può sempre imparare qualcosa…

Beh, direi che oggi abbiamo messo un altro tassello nel nostro vocabolario avanzato.

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