Accadde il 10 dicembre: alieno, alienare, alienabile e inalienabile

Alieno, alienare, alienabile e inalienabile

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Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Questo però non è accaduto in Italia.

Allora prendiamo un altro evento, stavolta accaduto in Italia, sempre il 10 dicembre, come spunto per l’episodio della rubrica “accadde il”.

Parliamo della morte di Luigi Pirandello, avvenuta il 10 dicembre 1936 a Roma, come sapete è stato un grande scrittore italiano, drammaturgo e romanziere, celebre per opere come “Sei personaggi in cerca d’autore”, che contribuirono alla nascita del teatro moderno e del Teatro dell’assurdo.

Con la sua scrittura ha esplorato l’identità, la follia, il confine tra realtà e finzione. E il nucleo di molte delle sue opere ruota attorno a una verità che nessuno può negare o, potremmo dire, che nessuno può “alienare”: la libertà interiore dell’individuo di costruire e raccontare la propria esperienza umana.

Proprio partendo da Pirandello possiamo spiegare,oltre al verbo alienare, anche la parola inalienabile che incontriamo spesso anche nei testi giuridici o filosofici, ma che conserva un significato profondo quando la colleghiamo alla persona e alla sua esperienza umana.

Inalienabile significa qualcosa che non può essere tolto, ceduto, venduto o separato dal suo titolare, proprio perché fa parte essenziale di lui. L’aggettivo nasce dal latino in- (prefisso negativo) e alienabile (cioè “che si può trasferire” o “cedere”). Quindi inalienabile è letteralmente non cedibile, non trasferibile. È un linguaggio giuridico, quindi formale e si usa parlando dì proprietà.

Inalienabile però non si usa solo parlando dì una proprietà che non sì può cedere, ma si usa spesso per i diritti umani (diritto alla dignità, alla libertà), perché sono intrinseci alla persona e non si possono “dare via” come un oggetto. Quindi anche alcuni diritti dell’uomo si dicono inalienabili.

Ecco perché avevo parlato, all’inizio, del Il 10 dicembre 1948, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

I diritti fondamentali dell’uomo vengono definiti proprio così il 10 dicembre 1948, quanto si affermò che tali diritti appartengono all’uomo e non possono essere tolti, ceduti, venduti o rinunciati: sono inalienabili.

Passando a Pirandello, possiamo invece dire che per lui la ricerca dell’identità era qualcosa di inalienabile: ogni persona ha un mondo interiore che nessuno può davvero togliere, nemmeno attraverso regole sociali opprimenti o ruoli fissi. È un uso più “umano” della parola rispetto a quello giuridico formale, ma aiuta voi a capire l’idea profonda: ciò che appartiene all’essere umano nella sua essenza non può essere alienato.

Ora, alienare e la parola alieno (cioè extraterrestre) sono parole strettamente legate perché condividono una radice latina comune: alienus, che significa “di un altro”, “estraneo”, “altro da sé”.

Da qui alienare ha assunto il significato di trasferire qualcosa ad un altro, di cederlo: “alienare un proprio bene”, significa vendere o cedere una proprietà.

Quando usiamo la parola “alieno” in italiano moderno, spesso intendiamo qualcosa di estraneo, come appunto gli extraterrestri, ma non solo. Parliamo anche di qualcosa di diverso che non ci appartiene, come l’idea di sentirsi fuori posto o estraniati in una situazione sociale.

Quando Pirandello scriveva, rifletteva su come le persone a volte si sentono alienate dalla società: non capite, quasi di un altro mondo, come un personaggio che non riconosce più se stesso nello specchio. In questo senso, puoi dire: “in quella festa mi sentivo un alieno”. cioè Ero totalmente diverso dagli altri partecipanti.

In questo episodio colleghiamo così una data storica italiana, la morte di un gigante della letteratura, a un termine che tocca identità, libertà e umanità. E proprio come gli altri episodi di Italiano Semplicemente, attraversiamo la storia, la cultura e la lingua per far emergere il cuore delle parole che usiamo ogni giorno.

Adesso voglio rispolverare qualche episodio passato partendo proprio da questi concetti.

Pensiamo ad esempio alla dignità umana. Sarebbe impensabile “venderla” o rinunciarvi, anche se qualcuno, come visto in altri episodi, tentasse di “prevaricare” o “sopraffare” l’individuo, o di “mettere a tacere” la sua libertà di parola o se tentasse addirittura di “epurarlo”. Ecco un uso corretto del termine: “La libertà di pensiero è un diritto inalienabile”. Ovviamente questo accade nelle società democratiche…

Alienare, a differenza di inalienabile, si usa spesso in contesti patrimoniali: “Ho alienato la mia proprietà”. Se ricordate l’episodio del 6 febbraio, dedicato a “mandare a carte 48”, alienare un bene può essere necessario per evitare un fallimento o un collasso finanziario. Se non volete mandare un affare a carte 48, può servire alienare una vostra proprietà.

L’alienazione è dunque un trasferimento volontario oppure imposto. Alieno invece si incontra anche nella lingua comune: “mi sento alieno nel tuo ambiente, trai tuoi amici”, ovvero mi sento estraneo, fuori posto. È la stessa distanza che, nel linguaggio politico, può portare a definirsi “euroscettici” o “europeisti”, cioè in sintonia o in contrasto con una comunità.

Per rinforzare il significato, posso usare esempi diversi dal contesto dei diritti. In una relazione sentimentale, si può essere gelosi del proprio tempo libero, ma non sarebbe corretto chiamarlo un diritto inalienabile, perché la parola porta con sé un peso formale che non si adatta allo sfogo colloquiale. Nello sport, invece, la dignità dell’atleta può essere considerata un valore inalienabile, soprattutto quando prima viene “idolatrato” o “messo su un piedistallo” e poi scaricato.

Accadde il 9 dicembre: Sconfinare nel ridicolo

Sconfinare nel ridicolo

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Per spiegare l’espressione “sconfinare nel ridicolo” (cioè oltrepassare il limite del buon senso o della serietà, fino a risultare involontariamente buffi o poco credibili agli occhi degli altri) possiamo partire da un evento storico legato al 9 dicembre, che è significativo per l’Italia e interessante anche per chi,come voi, studia la lingua e la cultura italiana.

Un evento ricordato ogni anno il 9 dicembre è la “Venuta della Santa Casa”. Che nome strano vero?

Si tratta di una festività popolare molto radicata nelle Marche e in parte dell’Umbria.

Secondo la tradizione cattolica, la casa di Nazareth della Vergine Maria sarebbe stata trasportata dagli angeli fino a Loreto, e per celebrare questo “arrivo”, che risale a secoli fa, si accendono grandi falò la notte tra il 9 e il 10 dicembre in città e campagne, come simbolo di luce e comunità.

Questa ricorrenza è così sentita e visiva da attirare famiglie e visitatori ogni anno, e fa parte della cultura folcloristica italiana.

Supponiamo che un gruppo di turisti, affascinato da questa tradizione, decida di ricreare i falò usando bombole di gas e fuochi d’artificio illegali per “fare qualcosa di ancora più spettacolare”.

Se il gesto diventa pericoloso, esagerato o completamente fuori controllo, la popolazione locale potrebbero dire:

Con tutta questa roba avete proprio sconfinato nel ridicolo!

In altre parole, hanno oltrepassato il limite del festoso e tradizionale per arrivare al grottesco o pericoloso, perdendo di vista il significato della celebrazione.

Questa immagine aiuta a capire come usare l’espressione: non si tratta solo di fare qualcosa di buffo, ma di andare oltre quello che gli altri considerano ragionevole o appropriato per una data situazione.

Si potrebbe anche semplicemente dire “siete ridicoli”o “vi siete ridicolizzati” ma con questa espressione si sottolineare il passaggio dal normale al ridicolo.

Per rendere l’idea ancora più concreta nella vita quotidiana, ecco altri esempi narrativi:

Immaginiamo una cena formale tra colleghi dove qualcuno, invece di presentare la propria idea con calma e chiarezza, inizia a fare imitazioni esagerate di personaggi famosi con voci buffe. All’inizio può far sorridere, ma se continua oltre il limite di ciò che è accettabile per una riunione di lavoro, gli altri potrebbero commentare che questa persona ha sconfinato nel ridicolo: ha superato il confine tra simpatia e scarsa professionalità.

Esiste anche “sfiorare il ridicolo”, quando ci si ferma un attimo prima, fino al confine del ridicolo.

In questo caso non si sconfina ma si sfiora il confine,si tocca appena, evitando però di farsi ridicoli completamente. Dunque “sconfinare” nel ridicolo è il passo oltre il confine, l’eccesso che conduce nel ridicolo vero e proprio.

Nella vita di tutti i giorni, uno può sconfinare nel ridicolo anche quando si veste in modo estremamente eccentrico per andare a fare la spesa in un supermercato.

L’espressione si applica quando l’azione, pur magari nata da una buona intenzione, supera la soglia della ragionevolezza e diventa più oggetto di sorpresa o derisione che di apprezzamento serio.

Il verbo sconfinare naturalmente significa letteralmente oltrepassare un confine, cioè superare un limite geografico, fisico o simbolico.

In origine si usa per indicare quando si esce da un territorio stabilito: per esempio, un animale che esce dal suo recinto o un soldato che attraversa il confine di uno Stato senza autorizzazione sta sconfinando.

Da questo senso concreto nasce un uso figurato: sconfinare significa anche superare un limite ideale, come quello del buon gusto, della professionalità, della ragionevolezza o della coerenza.

Quando diciamo “sconfinare nel ridicolo”, intendiamo proprio questo passaggio da un comportamento accettabile a uno eccessivo e imbarazzante, tanto da risultare ridicolo.

Si usa “nel” ridicolo. Non è una prerogativa del ridicolo però.

Si può sconfinare a anche nel grottesco, nel personale, ecc. La preposizione serve a introdurre lo spazio metaforico che viene “occupato” una volta oltrepassato il confine: ridicolo, assurdo, tragico, patetico.

È dunque la forma corretta per collegare il verbo all’ambito in cui si entra, proprio come se si attraversasse una frontiera reale, e resta la costruzione standard e naturale nell’italiano contemporaneo.

Accadde l’8 dicembre: la forma mentis

La forma mentis

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La parola, anzi, la coppia dì parole del giorno sono forma mentis. Sì tratta dì una locuzione Latina.

Significato “il modo di pensare”,l’assetto mentale” o “la struttura del pensiero”, o se preferite, “la forma della mente” che si ricorda meglio.

Prendiamo spunto da un evento del giorno 8 dicembre: la nascita di Marcello Piacentini, celebre architetto e urbanista italiano, nato a Roma l’8 dicembre 1881.

Marcello Piacentini fu una delle figure più influenti dell’architettura italiana del primo Novecento: fu protagonista della scena architettonica nazionale tra gli anni 1910 e 1940 e divenne ideologo e artefice di quel “monumentalismo di regime” che caratterizzò gran parte dell’architettura durante il periodo fascista.

La sua visione progettuale esprime una forma mentis ben definita: un modo di pensare l’architettura come strumento simbolico di potere, ordine e identità collettiva.

La sua forma mentis consiste nella convinzione che l’architettura debba comunicare valori civici e politici.

Nelle sue opere e nei progetti urbanistici, come quelli per il quartiere EUR di Roma o l’ampliamento della città universitaria (“La Sapienza”), si riflette l’idea che gli edifici pubblici e gli spazi collettivi debbano incarnare la grandiosità, la disciplina e l’unità nazionale.

La sua forma mentis era dì operare al servizio di una visione statale precisa.

Ora vediamo altri contesti per chiarire meglio che cosa significa forma mentis. Nel contesto professionale, ad esempio, un ingegnere assume spesso un formamentis orientato alla logica, all’analisi quantitativa e alla soluzione sistematica dei problemi.

Questo è il suo modo dì pensare, perché lo ha imparato all’università. La sua mente si è formata in questo modo. Quando affronta una nuova sfida, la sua mente tenderà a scomporre il problema in parti misurabili e a cercare soluzioni basate su dati.

Nel contesto artistico, invece, un pittore può avere un formamentis che valorizza l’immaginazione, le sensazioni visive e la creatività, portandolo a interpretare uno stesso soggetto con colori e forme molto diverse da quelle di un ingegnere. Tutt’altra forma mentis rispetto agli ingegneri.

Nel mondo accademico, gli studiosi di discipline umanistiche e quelli di discipline scientifiche spesso possiedono forma mentis differenti: mentre lo studioso di letteratura può cercare nessi simbolici e interpretazioni soggettive di un testo, il ricercatore in fisica cercherà leggi universali e modelli predittivi perché è abituato a pensare che la logica e la realtà sia soltanto una: della serie “la matematica non è un’opinione.

Queste differenze non sono negative di per sé, ma mostrano come la forma mentis influisca sulle domande che si fanno, sulle strade che si scelgono per rispondere e sui valori che si privilegiano.

In tutti questi esempi, formamentis non è solo un sinonimo stilistico di “mentalità”, ma indica il modo profondo in cui la cultura, l’educazione e l’esperienza plasmano, formano, modellano il pensare di una persona o di un gruppo.

Sì usa spesso citare la forma mentis anche quando non sì riesce a capire qualcosa, perché questo qualcosa richiede una forma mentis diversa dalla propria.

Es:

Per gestire questo progetto serve una forma mentis organizzativa e analitica, diversa dalla mia abitudine più creativa e istintiva.

Qui si sottolinea che capire e portare avanti il progetto richiede un modo di pensare strutturato, che non tutti possiedono naturalmente.

Io ad esempio, che ho una forma mentis scientifica, non riesco a capire i film più complessi, mentre mia moglie non ha alcun problema, sebbene non riesca a fare semplici operazioni matematiche a mente.

Abbiamo due forma mentis diverse. In sostanza, forma mentis spiega la differenza tra il modo in cui le persone elaborano informazioni, risolvono problemi o interpretano situazioni, e non tanto il livello di intelligenza o di conoscenza.

Altri modi per dire forma mentis sono modo di pensare, approccio mentale, altitudine o predisposizione mentale, mentalità, modo dì ragionare, struttura mentale, schema mentale, modo di vedere.

Accadde il 7 dicembre: ad ampio respiro

Ad ampio respiro (scarica audio)

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Visto che nell’ultimo episodio della rubrica “accadde il” si è parlato del sospiro, oggi non andiamo molto lontano. Restiamo infatti sul tema dei respiri.

Un’esperressione interessante è infatti “ad ampio respiro”. Non sto parlando di quando si va dal medico e lui o lei vi chiede dì fare un ampio respiro, dì un respiro profondo, cioè di respirare profondamente, a pieni polmoni.

Non c’entra quindi il respiro in senso letterale. Non si parla di respirazione, di fiato o di polmoni. Il termine è usato in senso figurato e richiama metaforicamente l’idea di ampiezza, apertura.

Un evento italiano legato al 7 dicembre particolarmente adatto a spiegare l’espressione “ad ampio respiro” è la Prima del Teatro alla Scala di Milano, che tradizionalmente inaugura la stagione lirica proprio in questa data, giorno di Sant’Ambrogio, patrono della città. Tutti conoscete il teatro La Scala dì Milano immagino, anche se non ci siete mai stati.

La Prima della Scala è il primo spettacolo della stagione teatrale e non è un semplice spettacolo teatrale, ma un avvenimento culturale e sociale di rilievo nazionale e internazionale: vi partecipano autorità, artisti di fama mondiale e rappresentanti delle istituzioni, ed è seguita dai media di molti Paesi. Anche un modo per alcuni per far parlare dì sé, anche se di teatro non si sono mai interessati.

Comunque sia, fin dalla sua fondazione nel settecento, il teatro in questione è stato un punto di riferimento della lirica mondiale, capace di lanciare carriere e influenzare il gusto musicale ben oltre i confini italiani.

In questo contesto, si può dire che la programmazione della Scala è una visione culturale ad ampio respiro, perché non si limita a soddisfare il pubblico locale o a inseguire il successo immediato, ma mira a incidere sulla cultura musicale internazionale, a valorizzare la tradizione operistica e, allo stesso tempo, a rinnovarla.

L’espressione “ad ampio respiro” indica infatti qualcosa di concepito in modo non ristretto, non provinciale, con uno sguardo largo e prospettico, capace di andare oltre l’immediato.

Nel contesto culturale e artistico, si può usare questa espressione parlando dì tantissime cose.

Ad esempio di un festival che mette insieme musica, teatro e arti visive con ospiti da tutto il mondo: un progetto del genere è ad ampio respiro perché dialoga con culture diverse e non resta confinato a un solo ambito. Nel contesto politico o istituzionale, una riforma ad ampio respiro è una riforma pensata per produrre effetti duraturi, non per risolvere solo un problema contingente.

In ufficio si usa spesso e volentieri anche per darsi un tono, usando un linguaggio più elegante.

Se, ad esempio, un ufficio pubblico predispone un questionario per i cittadini, nel linguaggio interno o in una comunicazione ufficiale difficilmente si dirà semplicemente che si tratta di un modulo per raccogliere opinioni.

Più facilmente si parlerà di un questionario ad ampio respiro, volto a raccogliere contributi, percezioni e suggerimenti della cittadinanza, su argomenti diversi.

In questo caso l’espressione serve a presentare l’iniziativa come più strutturata, inclusiva e significativa, anche se nella pratica si tratta magari di poche domande a risposta chiusa. Diciamo che suggerisce che l’iniziativa non è limitata, settoriale o occasionale, ma inserita in una visione più generale, più ampia quindi in questo senso.

Per uno studente straniero è importante notare che “ad ampio respiro” ha quasi sempre una connotazione positiva: richiama l’idea di apertura, lungimiranza e profondità.

Proprio come la Prima della Scala del 7 dicembre, che non è solo una serata di gala, ma l’espressione di una tradizione culturale italiana capace di parlare al mondo.

Accadde il 6 dicembre 1794: sospirato

L’aggettivo sospirato (scarica audio)

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sospirato

Un evento storico nella cultura e nello spettacolo italiano collegato al 6 dicembre riguarda la nascita di Luigi Lablache, uno dei bassi più importanti dell’opera lirica del XIX secolo, nato a Napoli il 6 dicembre 1794.

Lablache fu un cantante d’opera celebre per la sua voce profonda e agile, amato dal pubblico europeo e interprete di ruoli memorabili nei teatri più importanti d’Italia e d’Europa. La sua carriera fu così significativa che il ruolo di Don Pasquale fu creato proprio per lui dal compositore Donizetti.

Questo personaggio è tuttora noto nell’ambiente lirico per le sue doti comiche e drammatiche.

Prendendo spunto da questo avvenimento possiamo spiegare l’aggettivo sospirato.

In italiano “sospirato” descrive qualcosa che è stato desiderato o atteso con forte intensità e emozione, come un sospiro per l’attesa o l’ansia di veder realizzato qualcosa.

Nel contesto del teatro e dell’opera, un ruolo può essere definito sospirato quando un cantante lo desidera ardentemente, magari per anni, prima di poterlo interpretare sul palco.

Immagina un giovane cantante lirico che per tutta la sua carriera sogna di debuttare al Teatro alla Scala di Milano in un ruolo importante.

Quando finalmente riceve la chiamata, si può dire che quel debutto è il ruolo tanto sospirato della sua vita: non solo un’opportunità professionale, ma un sogno accarezzato con passione e pazienza, quasi come se fosse nato da un lungo susseguirsi di sospiri di desiderio e speranza.

Nel contesto cinematografico, possiamo applicare lo stesso concetto parlando, tanto per fare un esempio, del film Il sorpasso, una delle opere più celebri della commedia all’italiana uscita nelle sale nel 1962 e considerata un capolavoro del genere.

Se un giovane regista italiano, dopo anni di progetti minori o corti sperimentali, aspira a dirigere un film di grande successo internazionale come questo, il film Il sorpasso potrebbe essere definito il sospirato successo della sua carriera.

Qui “sospirato” simboleggia l’oggetto di un desiderio intenso e prolungato nel tempo, capace di evocare emozioni forti e aspettative.

Per un atleta, la tanto sospirata vittoria di un campionato rappresenta l’obiettivo inseguito con determinazione per molte stagioni.

Per uno studente, il sospirato diploma è quel traguardo che sembra sempre lontano finché non viene finalmente raggiunto.

In ciascuno di questi esempi, l’aggettivo sospirato non è solo una descrizione neutra di qualcosa desiderato, ma porta con sé l’idea di un desiderio intenso, atteso a lungo e finalmente realizzato.

Notate che generalmente l’aggettivo sospirato viene usato prima del sostantivo per sottolineare il valore emotivo del desiderio: non è un’attesa fredda o razionale, ma carica di sentimento. Abbiamo visto in un passato episodio il senso di mettere l’aggettivo prima del sostantivo.

Il sospirato diploma

La sospirata vittoria

Il sospirato bacio

Quanto alle alternative, potete sempre usare desiderato al suo posto, se volete, oppure agognato o bramato. C’è anche un bell’episodio in merito, per non parlare dell’episodio dedicato ai desideri. E poi esiste anche anelare. Anche qui abbiamo un episodio.

La scelta cambia il registro, l’intensità emotiva e il contesto.

Sospirato richiama il sospiro: un desiderio lungo, paziente, spesso tenero o malinconico, vissuto interiormente. È tipico di contesti affettivi, poetici o anche narrativi.
Una sospirata libertà, una sospirata pace, un sospirato incontro.

Desiderato è il termine più neutro e generale. Indica ciò che si vuole ottenere, senza caricarlo necessariamente di emozione. Funziona bene in contesti sia quotidiani sia formali.
Un desiderato risultato, una desiderata soluzione.

Agognato esprime un desiderio intenso e spesso sofferto, legato a una lunga attesa o a una mancanza profonda. Ha un tono più elevato e drammatico.
Un agognato riscatto, una agognata libertà.

Bramato è ancora più forte: suggerisce impazienza, ardore, talvolta quasi avidità, come la brama dì potere. È meno delicato e più viscerale.
Un bramato successo, una bramata vittoria.

Anelato viene come si è visto da anelare, che in origine significa “respirare affannosamente”. Per questo indica un desiderio intenso, profondo e spesso accompagnato da tensione o fatica, come se mancasse l’aria. È meno tenero di sospirato e meno impulsivo di bramato. Più ricercato.

Una anelata libertà suggerisce qualcuno che ne ha bisogno vitale, quasi fisico.
Un anelato riconoscimento richiama anni di attesa, sacrifici, frustrazione.

Qui magari può essere utile anche chiarire la differenza tra respiro e sospiro. Il respiro è un atto fisiologico, automatico, necessario per vivere: respiriamo continuamente, spesso senza accorgercene. Il sospiro, invece, è un respiro modificato dall’emozione. Si sospira per desiderio, per sollievo, per malinconia, per attesa. Da qui nasce l’aggettivo sospirato: qualcosa che non è solo voluto, ma desiderato con partecipazione emotiva, quasi trattenendo il fiato.

Potete sospirare adesso, perché finalmente l’episodio è finito.

Accadde il 5 dicembre 63 a.C.: le catilinarie e il raziocinio

Le catilinarie e il raziocinio

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Marco Tullio Cicerone, il 5 dicembre nel 63 a.C., pronuncia la Quarta Catilinaria.

In questa celebre orazione Cicerone, uno dei più grandi oratori, avvocati e filosofi dell’antica Roma, smascherò i piani di una congiura per sovvertire la Repubblica attraverso argomentazioni precise, prove e un’analisi logica dei fatti. Vi dirò tra poco a chi era diretta questa reazione, questo discorso.

Cicerone, in quella occasione,nel Foro Romano, non si limitò a gridare accuse per suscitare emozioni nella folla, ma organizzò il suo discorso con criteri razionali.

Cicerone quel giorno esamina le prove, collega i fatti, anticipa le obiezioni e guida il Senato verso una conclusione basata sulla logica e il rigore argomentativo.

Cicerone dimostò raziocinio.

Cos’è il raziocinio?

Il raziocinio è il processo mentale attraverso cui si ragiona con ordine e coerenza per giungere a una conclusione sostenuta da motivazioni solide.

Spiegare la differenza tra raziocinio e razionalità, termine più noto ai non madrelingua, aiuta a capire meglio il concetto.

La razionalità è una qualità più generale: indica la capacità di agire o pensare in modo conforme alla ragione, evitando contraddizioni e pregiudizi.

È un termine ampio che si applica a come una persona adotta criteri coerenti nel suo comportamento o nel giudizio. Il raziocinio, invece, è il meccanismo concreto attraverso il quale si esercita la razionalità: è il processo di collegare passaggi logici, valutare le prove e giustificare passo per passo una conclusione.

Nel contesto del discorso di Cicerone, la razionalità è l’atteggiamento mentale che spinge a cercare la verità, mentre il raziocinio è lo strumento concreto usato per articolare le argomentazioni nel discorso pubblico. Cicerone non si basa su solo entusiasmo o opinioni popolari: costruisce un argomento motivo per motivo, rendendo evidente a tutti come i pezzi di informazione si incastrano, secondo i criteri della logica.

Per rendere il concetto immediato anche in altri contesti, pensa a una situazione quotidiana: quando scegli un ristorante per una cena con amici, potresti agire razionalmente considerando budget, gusti e distanza.

Ma il raziocinio è il percorso mentale che utilizzi per confrontare opzioni, pesare pro e contro e giustificare la scelta finale con argomentazioni convincenti invece che con un impulso del momento.

Allo stesso modo, se stai decidendo come organizzare il tuo studio per studiare per un esame all’università, non basta “voler fare bene”; devi mettere in sequenza quelle azioni specifiche, come programmare minuti di lettura, pause, revisione di appunti, confrontando le opzioni e scegliendo la più coerente con i tuoi obiettivi: questo è raziocinio, il processo logico che ti porta a una decisione fondata.

Nel quotidiano si usa soprattutto per dare consigli.

Per esempio, in una situazione di rabbia, dire “usa un po’ di raziocinio” suona molto naturale, perché richiama l’idea di un controllo immediato delle emozioni. Dire di usare razionalità è corretto, ma appare più freddo e teorico, come se descrivessi una qualità, non un’azione concreta. La razionalità è più astratta.

Se consigli a qualcuno di valutare bene una scelta di lavoro, “agire con raziocinio” mette l’accento sul processo di valutazione, mentre “agire con razionalità” descrive il fatto che quella persona dovrebbe comportarsi in modo coerente e non impulsivo. Entrambe sono corrette, ma il focus cambia.

Nei consigli pratici e immediati del quotidiano, quindi, raziocinio è più incisivo, perché indica il ragionare in atto. Razionalità è perfetta quando vuoi parlare di equilibrio, coerenza e buon senso come caratteristiche stabili di una persona o di un comportamento.

Infine, vi sareste chiesti cosa sia una catilinaria.

Catilinaria è un sostantivo femminile che indica un discorso pubblico di accusa dura e appassionata, pronunciato per denunciare comportamenti ritenuti pericolosi, immorali o dannosi per la collettività.

Il termine deriva proprio dalle celebri orazioni di Marco Tullio Cicerone, che erano rivolte contro Lucio Sergio Catilina, che era accusato di aver organizzato una congiura contro la Repubblica romana nel 63 a.C.

In quelle orazioni Cicerone smaschera Catilina davanti al Senato usando raziocinio, con un discorso serrato, ricco di argomentazioni logiche, accuse precise e forte tensione morale.

Nel significato moderno, una catilinaria non è più legata solo all’episodio storico, ma indica qualunque invettiva lunga e articolata, spesso pronunciata in pubblico, in cui qualcuno viene attaccato senza mezzi termini. Non è una semplice critica: è un atto di accusa costruito, polemico e spesso solenne. Naturalmente questo è un termine conosciuto solo dalle persone più colte. Molti Italiani non sanno l’origine e l’utilizzo, anche se può essere intuibile.

Nel linguaggio quotidiano si può dire, per esempio, che un insegnante ha fatto una vera catilinaria contro la mancanza di impegno degli studenti, oppure che un giornalista ha scritto una catilinaria contro la corruzione politica. In questi casi il termine suggerisce non solo durezza, ma anche una certa costruzione retorica, quasi da oratore.

In sintesi, catilinaria significa discorso di accusa veemente e strutturato, con un forte intento di denuncia pubblica, e porta con sé un chiaro richiamo alla tradizione culturale e retorica dell’antica Roma.

Una catilinaria dunque è una specie dì invettiva. Questa parola l’abbiamo già incontrata (ma solo di sfuggita) in un episodio dedicato alle finippiche e le prediche.

Ma mentre l’invettiva può essere istintiva, la catilinaria è un’invettiva ragionata, spesso lunga,.

Quando oggi diciamo che qualcuno “ha fatto una catilinaria”, suggeriamo non solo che ha attaccato duramente qualcuno, ma che lo ha fatto organizzando il discorso, quasi come un oratore antico, con l’obiettivo di convincere e smascherare, non solo di insultare.

L’invettiva l’abbiamo incontrata anche parlando del verbo scagliarsi (contro qualcuno). Anche scagliarsi è diverso dalla catilinaria.

È vero che facendo una catilinaria, Cicerone sì scagliò contro il povero Catilina, ma quando ci si scaglia contro qualcuno non sempre si tratta di una catilinaria, anzi, quasi mai. Generalmente, infatti, si perde il controllo, non si agisce con raziocinio ma in preda alla rabbia.

Accadde il 4 dicembre 1674: il capostipite

Descrizione:
Nel diritto di famiglia, il capostipite è l’antenato più antico da cui deriva una genealogia ricostruibile.
Nel linguaggio scientifico, il capostipite è la prima specie o il primo ceppo a partire dai quali si sviluppano varianti successive.

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Episodio per soli membri dell’associazione culturale ITALIANO SEMPLICEMENTE

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capostipite

Accadde il 3 dicembre 1919: risalire la china

Risalire la china

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risalire la china

Un fatto interessante accaduto in Italia il 3 dicembre è legato ai cosiddetti “Fatti di Mantova“.

Il 3 dicembre 1919, a Mantova, scoppiarono violenti scontri tra dimostranti e forze dell’ordine nel corso di uno sciopero generale. L’origine dei Fatti di Mantova è da collegarsi al cosiddetto “Biennio rosso“, un periodo di forti tensioni sociali e politiche dopo la prima guerra mondiale.

Quel giorno scoppiarono violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine nel contesto di uno sciopero generale nazionale in reazione alle aggressioni subite da deputati socialisti all’uscita dalla Camera dei deputati il 1º dicembre.

Quel giorno furono assaltate armerie, ci furono scambi di colpi d’arma da fuoco e diverse persone persero la vita.

Dopo uquesta giornata, la città doveva ritrovare ordine, ricostruire fiducia e normalità nella vita pubblica.. In un senso figurato, occorreva “risalire la china”, cioè bisognava uscire da una brutta situazione e tornare gradualmente verso la stabilità, la normalità.

La locuzione risalire la china significa dunque superare un periodo negativo e ritrovare una condizione più favorevole.

“China” è la stessa parola che abbiamo precedentemente spiegato nell’episodio dedicato alla “deriva autoritaria” nella rubrica sul linguaggio della politica. Possiamo anche collegarla all’idea di “prendere una brutta piega”. Immagina una strada ripida: quando la situazione sociale, politica o personale prende una piega negativa, sembra essere in discesa, in una “china” sfavorevole; risalire la china significa, in senso proprio, percorrere la strada in salita per lasciare quella fase alle spalle e tornare verso una condizione migliore.

Per chiarire ancora di più, se ad esempio uno studente all’inizio dell’anno accademico riceve voti molto bassi, potremmo dire che ha preso una brutta piega o un andazzo negativo, ma poi, con impegno e studio, migliora progressivamente le sue prestazioni, si può dire che ha risalito la china: ha superato una difficoltà per tornare a buoni risultati.

Allo stesso modo, un’azienda che dopo una crisi economica ritorna a generare profitti sta risalendo la china. Anche nella vita quotidiana, una persona che supera un periodo di malattia o difficoltà personale può essere descritta con questa espressione.

C’è da dire che l’espressione tende a comparire soprattutto quando si parla di un miglioramento graduale dopo un periodo difficile ma non necessariamente tragico come sono stati i Fatti di Mantova.

I giovani non usano quasi mai questa espressione, ma i giornalisti, i commentatori sportivi, gli editorialisti e in generale chi scrive in un registro medio-alto la utilizza spesso. È una espressioneche appartiene più alla lingua scritta, soprattutto quella che vuole risultare precisa, riflessiva o leggermente formale. Lo stesso discorso vale per la parola “crinale” quando lo utilizziamo in senso figurato: prevale decisamente l’uso formale e giornalistico.

Il verbo risalire, invece si può usare in ogni contesto. Si può usare  sia in senso proprio sia in senso figurato, ma se usiamo “risalire la china” è solo figurato.

In senso proprio il verbo indica un movimento verso l’alto lungo un percorso già fatto in discesa: risalire il fiume, risalire un sentiero, risalire una vallata. È un gesto fisico, legato a uno sforzo. Risalire vuol dire anche “salire nuovamente” (es: “devo risalire in casa perché ho dimenticato una cosa”).

Anche in questo uso quotidiano è implicita l’idea di un ritorno verso l’alto dopo un movimento precedente verso il basso o verso l’esterno.

Nel figurato, risalire descrive il recupero dopo una fase negativa. Il verbo conserva l’idea dello sforzo e della gradualità. Non si torna su di colpo: si risale lentamente, come lungo un pendio.

Voglio farvi notare infine che esiste anche il verbo “chinarsi” e “chinare“.

Chinarsi significa piegare il busto o la testa verso il basso. È un gesto molto concreto: ci si china per raccogliere qualcosa, per guardare meglio, per mostrare rispetto o, in senso figurato, per sottomettersi. La direzione è sempre discendente, coerente con l’idea di china come pendenza in discesa.

Chinare, transitivo, indica l’azione di far piegare qualcun altro o qualcosa: si può chinare la testa, chinare il capo. Anche in questo caso prevale un significato fisico, associato però a un valore simbolico forte, quello dell’umiltà o della resa. Ad esempio, non bisogna mai chinare il capo di fronte alla prepotenza, all’arroganza e all’ignoranza! Chinare la testa, se parliamo dell’atto fisico di piegare la testa, significa piegare il capo in segno di riverenza, sottomissione o anche semplicemente saluto. In senso solamente figurato significa rassegnarsi, sottomettersi, obbedire. 

Accadde il 2 dicembre 1338: avere nella propria disponibilità

Avere nella propria disponibilità (scarica audio)

Trascrizione

la propria disponibilitàOggi vediamo una modalità alternativa per esprimere il concetto di appartenenza e possesso.

Il modo più semplice è, come sapete, usare il verbo avere, o anche possedere.

Es:

Ho una casa a Roma.

Possiedo una casa a Roma

Per parlarvi di questa modalità alternativa vi anticipo che è un pochino più formale.

Allora, partiamo come di consueto da un evento storico accaduto nello stivale.

La data è quella del 2 dicembre. Un evento storico italiano interessante avvenuto il 2 dicembre che può servire da spunto è l’annessione di Treviso da parte della Repubblica di Venezia (o comunque l’ingresso di Treviso sotto il dominio veneziano), avvenuta il 2 dicembre 1338. Siamo ancora molto lontani dall’unità d’Italia, e finora Venezia era soprattutto una potenza marinara; con Treviso iniziava la costruzione del suo “stato di terraferma”.

Il concetto stesso di “annessione” ha a che fare col possesso, anche se non è questa la modalità che avevo in mente. Annettere è una forma politica e territoriale.

Annettere significa incorporare un territorio all’interno di un altro Stato, cioè farlo passare sotto la propria sovranità, includendolo nel proprio dominio.

Il territorio annesso diventa nella disponibilità dello Stato che lo ha assorbito: lo amministra, ne riscuote le imposte, esercita il potere militare e civile, decide le leggi che vi valgono.

In quella data, infatti, la città di Treviso, che era un comune indipendente, viene consegnata a Venezia; da quel momento la Repubblica veneziana potremmo dire che “ha a disposizione”, o che “ha nella propria disponibilità” la città: cioè Treviso, con i suoi beni, il suo territorio, la sua giurisdizione, diventa risorsa e parte integrante, è cioè nella disponibilità della Repubblica di Venezia.

Quindi come avete capito parliamo della “disponibilità”, e in particolare delle forme “avere a disposizione” qualcosa e “avere nella propria disponibilità” qualcosa. Al posto di avere può capitare di  trovare anche altri verbi, come il verbo essere o rientrare. Infatti se si ha qualcosa nella propria disponibilità questa cosa è nella propria disponibilità, oppure rientra nella propria disponibilità.

Aggiungere “propria” prima della parola “disponibilità”, o l’aggettivo possessivo mia (nella mia disponibilità), tua, sua, eccetera, conferisce maggiormente l’idea della facoltà di fare ciò che si vuole di questa cosa.

In questo caso abbiamo l’idea del controllo pieno, della facoltà di usare qualcosa liberamente, quasi come se quella risorsa fosse “sotto il tuo comando”. In questo modo si rafforza la sensazione che quella risorsa sia parte del tuo “patrimonio” materiale o funzionale, qualcosa su cui non devi rendere conto a nessuno e che puoi usare a tuo piacimento. Attenzione perché la proprietà potrebbe anche non esserci quando usiamo “avere nella propria disponibilità”.

L’esempio storico che ho fornito non è in realtà l’esempio più calzante per usare “avere qualcosa nella propria disponibilità” perché il contesto più adatto è quello amministrativo/burocratico.

Ad esempio, un’azienda che dice “abbiamo nella nostra disponibilità un magazzino” comunica che quel magazzino appartiene all’azienda oppure che è stabilmente nella sua sfera di controllo.

Quando si parla di risorse, strumenti, mezzi o poteri che si possono usare o disporre liberamente possiamo sempre usare questa forma.

Una azienda può dire di avere nella propria disponibilità un capannone, il che significa che il capannone le appartiene o che può usarlo quando serve. Non è necessario che appartenga all’azienda. In genere è così, ma non è obbligatorio.

Un lavoratore potrebbe essere chiamato dalla propria azienda a dichiarare che il mezzo che utilizza per spostarsi per esigenze di servizio “rientra nella propria disponibilità“. Se volete potete dare un’occhiata ad un documento di esempio. Vi riporto il collegamento.

Se cambiamo contesto, meno tecnico, posso dire che ad esempio uno studente può avere nella propria disponibilità un buon libro e un computer, cioè dispone di strumenti utili per studiare. Ce li ha, li può usare. Non è detto che gli appartengano. Certo, forse usare questa forma non è molto comune in questi casi.

Il contesto più adatto per usare “avere nella propria disponibilità” è come detto quello amministrativo, quando si vuole indicare che si possiede, materialmente o in senso di potere/opportunità qualcosa che si può usare, gestire o sfruttare a proprio piacimento o secondo le proprie necessità.

In contesti non amministrativi/burocratici conviene usare semplicemente “disporre di” qualcosa (come ho fatto poco fa nell’esempio dello stuidente che dispone di strumenti utili per studiare), e il senso non cambia rispetto a “avere nella propria disponibilità”. Usare il verbo disporre può infatti significare avere qualcosa in dotazione.

Es: la palestra dispone di una piscina

Oppure, meno formalmente, spesso si usano soluzioni alternative per esprimere lo stesso concetto. possiamo usare ad esempio “essere fornito di” qualcosa.

Il verbo disporre comunque meriterebbe un approfondimento, ma fortunatamente lo abbiamo già fatto. L’episodio appartiene alla rubrica dei verbi professionali.