833 Assumere e prendere una posizione

Assumere e prendere una posizione

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Trascrizione

Oggi parliamo della posizione.

Nello scorso episodio si è parlato di posizione obliqua, ricordate? L’inclinazione infatti, questo era l’oggetto dell’episodio, riguarda, tra le altre cose, anche la posizione non allineata rispetto ad un asse, quindi si tratta di una posizione obliqua.

Oggi parliamo sempre di posizione, perché proprio come avviene per l’inclinazione, non riguarda solo gli oggetti.

La posizione, in senso materiale, riguarda la collocazione nello spazio di un oggetto o anche una persona.

Io adesso sono seduto, quindi sono in posizione seduta.

Anche chi sta in piedi ha assunto una posizione, diversa dalla mia.

Quando una persona si sdraia a terra, si trova in posizione sdraiata, mentre se una persona dorme a pancia in su, ha una posizione supina, eccetera eccetera.

L’Italia in quale posizione si trova rispetto alla Francia? Potrei rispondere che sta più a sud.

Certo, l’Italia si trova a sud della Francia, ma non ha assunto questa posizione, perché c’è sempre stata in quella posizione, e l’Italia non può decidere di cambiarla.

Se usiamo assumere c’è anche una volontà o un cambiamento di posizione.

Mi mandi la posizione?

Questa domanda ormai, con l’affermazione di WhatsApp e dei social network in generale è sempre sulla bocca di tutti.

Se non parliamo di spazio e di collocazione, si parla ugualmente di posizione se intendiamo riferirsi alla condizione, alla situazione di una persona in certi contesti.

Ad esempio esiste la posizione giuridica, un concetto un po’ complicato per un non madrelingua, perché si tratta della posizione in cui si trova la persona a favore del quale matura un diritto soggettivo.

Poi in ambito commerciale esiste anche la la posizione di un cliente, cioè la sua situazione di dare e avere nei confronti di una banca o di una ditta fornitrice. Anche questa non facile.

In auto ci sono poi le luci di posizione, che si accendono sia davanti che dietro ogni automobile.

Nello sport invece, parlando di classifica, la posizione in classifica è il posto, la situazione, in cui si trova un atleta (o una squadra) durante lo svolgimento di una gara (o di un campionato).
La Roma è prima in classifica? Allora la Roma occupa la prima posizione in classifica. Possiamo usare anche assumere se c’è un cambiamento.

La Roma assume la prima posizione dopo 10 vittorie di fila.

A me interessa però parlarvi anche di un altro tipo di posizione, che non ha niente a che fare con lo spazio e le classifiche.

Parliamo invece di opinioni.

Una posizione è anche una opinione motivata o sostenuta da una radicata, una forte convinzione.

Quando una persona assume una posizione, in qusto caso non si intende sedersi o alzarsi o sdraiarsi, ma si intende esprimere con convinzione una opinione.

Quando si esprime un pensiero, quando si esprime una preferenza, un’idea, soprattutto quando si deve fare una scelta, ebbene in questi casi si può decidere di “prendere/assumere una posizione”.

Si dice così quando la nostra scelta è netta, chiara e convinta. Questo accade normalmente quando si assume una posizione.

Dico normalmente perché quando si va a votare, ad esempio, bisogna esprimere una preferenza o se vogliamo, bisogna assumere/prendere una posizione.

Chi non prende mai una posizione, lo sappiamo ormai, possiamo chiamarla agnostica.

Che questa posizione assunta sia una posizione convinta però è quello che accade normalmente.

Si può usare come detto anche il verbo prendere dunque “prendere una posizione” o più semplicemente “prendere posizione” è molto simile a assumere una posizione.

Anzi vi dirò che usare il verbo prendere non adito a dubbi sul significato, mentre assumere come detto potrebbe far pensare ad una posizione fisica.

Ma quando è più opportuno usare prendere posizione e assumere una posizione?

Generalmente la prima si preferisce in contesti abbastanza importanti, dove si fa una “scelta di campo”, cioè si decide da che parte stare tra due o più parti.

Es:

Vedo dalle notizie che un dirigente della Disney ha preso posizione contro una legge che impedisce di parlare di LGBT fino alla terza elementare.

Questo esempio ci fa capire come spesso le “prese di posizione” sono notizie che finiscono sui giornali, e questo a conferma dell’importanza e delle conseguenze che ne derivano.

Noi tutti in Italia ad esempio ci auguriamo che alcuni politici prendano finalmente una posizione chiara contro il fascismo.

Se usiamo il verbo assumere a volte va bene lo stesso, ma in realtà l’uso prevalente è un po’ diverso perché mentre prendere posizione si usa in caso di scelte importanti, come si è visto, assumere una posizione può avere anche altri significati.

Infatti il verbo assumere può anche essere usato nel senso di “fare proprio, prendere per sé”.

Pensiamo alle frasi “assumere un tono” , “assumere il comando” , “assumere un colore” , “assumere un contegno” , “assumere una posa” , “assumere un certo atteggiamento”.

Allora assumere una posizione indica che si fa propria una posizione, che sia fisica, che si tratti di una opinione espressa, ma può anche trattarsi di fare propria una posizione nel senso di importanza.

Allora si può dire:

Durante la riunione aziendale cercherò di assumere una posizione di rilievo in modo da influenzare le scelte aziendali.

Dunque se voglio assumere una posizione importante (di rilievo) voglio che la mia opinione sia considerata più di quello degli altri.

Oppure, con altri significati:

Per dormire bene dobbiamo assumere la giusta posizione a letto.

In questo caso si parla della posizione del corpo.

Oppure:

Il presidente chiede al consiglio di amministrazione di assumere una posizione chiara e coerente con l’ultima deliberazione.

In questo caso invece parliamo di un orientamento, di una opinione che abbia certe caratteristiche, che sia chiara e coerente.

Vedete che quando si tratta di opinioni, se usiamo assumere, non è detto si tratti di scegliere tra varie alternative in modo così netto come “prendere posizione”, che praticamente equivale a “scegliere da che parte stare“.

Adesso un breve ripasso degli episodi precedenti e per i membri l’esercizio per mettersi alla prova su questo episodio.

Irina: interessante il verbo assumere di cui hai parlato, ma ho visto che ha tanti usi diversi: come la vedete se mettiamo in agenda un episodio?

Estelle: bell’idea, e se Giovanni è d’accordo non ci resta che aspettare l’episodio.

Sofie: riuscirà a giostrarsela con così tanti significati? Ne ho visti qualcosa come una dozzina.

Marcelo: vedrai che nel giro di una settimana saremo accontentati.

Esercizi

10 domande per mettervi alla prova sull’episodio. Seguono le risposte.

Disponibili ai membri dell’associazione Italiano Semplicemente.

I file PDF si trovano nella cartella di Google Drive degli episodi 801-900

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817 Che vuoi che…

Scarica pdf domande e risposte su questo episodio (solo per membri)

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Che vuoi che…

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Trascrizione

Giovanni: che volete che vi spieghi oggi?

Forse potrei fare qualche esempio su come una brevissima pausa o il tono sia a volte importante per capire il senso di una frase.

Oppure potrei mettervi alla prova su come distinguere una vera domanda da una domanda retorica.

Potremmo fare entrambe le cose allora.

Ricordate l’episodio sulle domande retoriche, spero.

Una domanda retorica non è una vera domanda, anche se può sembrare una domanda.

Che volete che vi spieghi oggi?

Questa è una vera domanda.

Che vuoi che ne sappia io?

Questa è una domanda retorica.

Come distinguere? Questo è un dubbio che potrebbe nascere sempre quando c’è “che vuoi che” seguito da qualcos’altro.

Vediamo allora cosa può essere questo qualcos’altro:

Che vuoi che sia?

Questa è un’altra domanda retorica.

Questo genere di domanda, col verbo essere al congiuntivo, si usa per sminuire qualcosa, per sdrammatizzare, per dare meno importanza a qualcosa.

Es: un ragazzo è triste e spiega il motivo a un suo amico:

Maria mi ha lasciato. È una tragedia!

Risposta dell’amico:

ma che vuoi che sia? Alla nostra età più esperienze si hanno, meglio è.

È come dire: non è niente di grave, niente di così importante.

Esiste anche la forma al plurale “che vuoi che siano”.

Es:

Dovrò fare cinque esami quest’anno all’università.

Risposta: che vuoi che siano cinque esami in un anno?

Cioè: non sono tanti cinque esami.

Andiamo avanti:

Che vuoi, che non lo sappia?

Questa è un’altra domanda retorica. Significa: certo che lo so, è una cosa ovvia, lo trovi strano che io ne sia a conoscenza?

Avrete notato che in questo caso c’è una piccola pausa dopo “vuoi”.

La frase è equivalente a:

vuoi che non lo sappia?

Abbiamo già visto questo “vuoi che non“, e mettere un secondo “che” all’inizio serve solo a dare maggiore enfasi alla frase. Questo si può fare sempre.

Andiamo avanti:

Che vuoi che ti dica…

Questa può essere una vera domanda ma generalmente non lo è. È un’altra domanda retorica.

Questa frase si utilizza nel linguaggio colloquiale quando non si ha una chiara idea di qualcosa. Solitamente si tratta di cercare una ragione che ci spieghi qualcosa ma non ne abbiamo proprio idea e proviamo spesso a dare comunque una risposta.

Es.

Sai perché Giovanni ha deciso di diventare un prete?

Risposta: che vuoi che ti dica, sarà perché ha parlato con Dio, o forse perché ha avuto una crisi mistica.

Che è un po’ come dire: non saprei proprio cosa dirti, non lo so. Non so come rispondere, ma provo a ragionare e provo a dare una risposta.

Non è come dire: che vuoi che ci mangiamo oggi?

Questa è una vera domanda ma può diventare retorica se il frigo è vuoto.

che vuoi che ci mangiamo oggi che il frigo è vuoto?

Come distinguere? L’uso del congiuntivo può spiegare qualcosa? In realtà è vero che la frase “che vuoi che ti dica” è sempre usata in modo retorico e esprime sempre una forma di incertezza, di dubbio e di ricerca di una risposta. Spesso è preceduta da un “mah”:

Mah, che vuoi che ti dica?

A volte denota scoraggiamento, delusione:

Come va tuo figlio all’università?

Mah, che vuoi che ti dica, ha fatto un esame in due anni, speriamo riesca a sbloccarsi.

Dipende spesso anche dal verbo che si usa.

Che vuoi che faccia?

Questa in genere è una vera domanda. Spesso provocatoria, ma pur sempre una domanda.

Es:

Perché nei tuoi episodi fai tanti esempi?

Risposta: che vuoi che faccia, un episodio senza esempi? Non è possibile!

Vediamo adesso:

Che vuoi che ne sappia…

Un’altra domanda retorica.

In questo modo si esprime un convincimento mostrando un po’ di fastidio.

Chiedi a Giovanni come si usa il congiuntivo.

Risposta: ma che vuoi che ne sappia Giovanni di grammatica, che lui non la sopporta?

In queste frasi, col verbo sapere ma anche con altri verbi, c’è sempre una seconda parte della frase che inizia con “che”, come nel caso appena visto.

Altro esempio:

Che vuoi che ti racconti della vacanza, che l’ho passata interamente in quarantena per via del covid?

La seconda parte della frase serve a giustificare la prima, serve a spiegare il motivo.

“Che vuoi che” è equivalente a “cosa vuoi che”, e se sono molto arrabbiato possiamo anche aggiungere una parolina intermedia:

Che cavolo vuoi che abbia scritto sul compito, che non avevo studiato per niente?

Cosa cacchio vuoi che ci siamo detti io e Cathy, che lei non parla una parola di italiano?

Cosa diamine vuoi che ne capisca io di lingua latina, che non me l’ha mai insegnata nessuno?

C’è sempre un tono abbastanza irritato, perentorio, deciso.

Lo stesso concetto può avvenire comunque anche senza necessariamente contenere “che vuoi che”, ma il verbo volere non manca quasi mai.

Solo per farvi un esempio:

Ti aiuto io a recuperare matematica a scuola:

Risposta possibile:

Cosa vuoi aiutarmi tu, che non hai mai preso una sufficienza in matematica?

Abbiamo visto le forme più utilizzate: che vuoi che sia, che vuoi che ne sappia, che vuoi che ti dica, ma “che vuoi che” può essere seguito in realtà da tutti i verbi al congiuntivo, spesso con un tono scocciato, infastidito per qualcosa che si ritiene ovvio.

Es:

Mi dici perché 10 anni fa non mi hai fatto il regalo di compleanno?

Risposta:

ma cosa vuoi che mi ricordi di 10 fa che a malapena ricordo cosa ho mangiato oggi!

Oppure, se mia moglie mi dice: stai male? Sei un po’ troppo silenzioso oggi.

Mia risposta:

ma niente, che vuoi che abbia? Sono solo un po’ stanco.

Tanto per concludere l’episodio, se si parla con più persone si può anche dire “che volete che…“. Questo vale per tutti gli verbi.

Adesso ripassiamo qualche episodio passato dalle voci dei membri dell’associazione Italiano Semplicemente.

Poi, tutti voi membri potrete verificare quanto avrete appreso di questo episodio rispondendo a 10 domande. Lo scorso episodio almeno un paio di domande hanno creato qualche difficoltà anche ai più bravi.

Chi volesse mettersi alla prova in questo e in altri futuri episodi invii la richiesta alla pagina di iscrizione all’associazione italianosemplicemente.com/chi-siamo

Ulrike: quale regione italiana vorreste visitare? A me piace il vino, ragion per cui vanno bene tutte. Dovendo scegliere però direi Toscana, che è più congeniale ai gusti di mio marito in fatto di cultura.

Marcelo: io meglio che sto alla larga dai vini. Il medico dice che potrebbe pregiudicare la mia salute.

Peggy: io non sono al corrente di quale siano i vini italiani più buoni, ma a detta di molti, si casca sempre bene.

631 Non se ne parla!

Non se ne parla (scarica audio)

Trascrizione

Giovanni: parole, parole, parole, recita una famosa canzone italiana. Ma parlare a cosa serve? Diciamo a comunicare, in generale, ma spesso il verbo si usa per indicare un particolare tipo di comunicazione.

Se dico ad esempio a mia moglie:

Dobbiamo parlare.

Lei si preoccuperà. Cosa mi dovrà dire? Perché mi vuole parlare? Di cosa?

Questo “parlare” indica in questo caso un chiarimento che normalmente comporta delle conseguenze, dei cambiamenti di qualsiasi tipo. Un argomento delicato di cui parlare in privato.

Altre volte parlare indica anche una semplice discussione su un argomento:

Oggi in ufficio dovremmo parlare di un affare.

Ne parliamo appena torno a casa

Altre volte si usa quando si devono spiegare bene le caratteristiche di qualcosa o quando si fa una proposta e un’altra persona può accettarla oppure no:

Di questo affare ne dobbiamo assolutamente parlare

Ti propongo una soluzione al problema. Parliamone.

Si usa anche, e arriviamo all’espressione di oggi, quando vogliamo rifiutare decisamente una proposta.

Non se ne parla proprio!

Cosa hai detto? Non se ne parla!

Andare a lavorare senza aria condizionata? Con questo caldo? Non se ne parla prima della fine dell’estate!

Non se ne parla: Con questa espressione si sta dicendo che non è neanche il caso di parlarne, quindi si non deve neanche iniziare una discussione sulla questione, perché ciò che hai detto non mi trova assolutamente d’accordo. Siamo in completo disaccordo se dico:

Non se ne parla!

Non se ne parla proprio!

Sintetizzando, l’espressione equivale a un “no!”

Spesso si aggiunge, “proprio” in questo caso, equivale a “assolutamente”. Si vuole esprimere convinzione, risolutezza, una ferma opinione da non discutere.

Quando dico “Se ne parla” si intende “si parla di questa cosa” Quindi la particella “ne” serve a non ripetere la questione di cui si sta parlando, altrimenti dovrei dire:

Non dobbiamo proprio parlare di questa cosa!

Non discutiamo assolutamente della questione!

O altre frasi di questo tipo

Ovviamente io metto sempre il punto esclamativo in questi casi, perché altrimenti “non se ne parla” può avere un senso diverso. Ad esempio:

Ma il problema che avevamo ieri? Non se ne parla più? Forse è stato risolto?

Se non se ne parla evidentemente è stata trovata una soluzione.

Non se ne parla in giro, ma la lingua italiana si sta diffondendo sempre di più nel mondo

Della riforma del lavoro non se ne parla ormai da tempo. Chissà perché.

Oggi nel ripasso parliamo di… ve ne parla Bogusia, il membro dell’associazione Italiano Semplicemente che lo ha realizzato. Domani vediamo “se ne parla” (senza negazione) e anche “se ne riparla“.

Buon ripasso (ci sono ben 51 richiami a episodi precedenti):

Ripasso a cura dei membri dell’associazione Italiano Semplicemente

Bogusia: Buongiorno a tutti, vi ho ascoltato davvero con molto piacere recentemente. Siete stati bravissimi con i vostri ripassi sui diversi argomenti, ma cotanta cultura mi ha preso un po’ alla sprovvista. Eravate davvero in vena. Balza agli occhi che ci sappiate fare in questo ambito, eccome. Questo mi ha dato lo spunto per comporre il presente ripasso. Avete mai pensato di cimentarvi con qualche satira?

Gli eventi che viviamo di recente a tratti fanno paventare sciagure nel il nostro futuro e soprattutto in quello dei nostri figli.

Ci viene voglia di gridare a squarciagola che bisognerebbe rimettere in sesto tante cose, ci viene voglia di apostrofare qualcuno di rilievo, qualche politico oppure qualcuno che semina voci false e tendenziose e rispondergli in malo modo.

Però il mondo è quello che è e bisogna mettersi dei paletti e a volte anche darsi una regolata.

Però urge dire qualcosa, arrabbiarsi apertamente, indignarsi pubblicamente, ma non lo facciamo perché sarebbe una mossa sbagliata e di conseguenza si vedrebbero le brutte e si potrebbe persino finire in galera.
Da che mondo è mondo esiste questo problema, ma si dà il caso che fin dagli inizi del XVI secolo a Roma abbiano inventato una bella mandrakata per far sapere alla gente di potere che c’è qualcuno di diverso avviso che si ribella, e questo avveniva tramite la stampa satirica e le “statue parlanti” che svolsero il ruolo di vere e proprie gazzette, veri e propri giornali, dove di punto in bianco si commentava un fatto accaduto un certo giorno.

Parlo del cosiddetto “Congresso degli Arguti” cioè un gruppo composto di sculture, sparse nei vari punti della città, che “parlavano” attraverso componimenti satirici.

Anonime malelingue che non volevano calare le braghe davanti al potere, in primo luogo quello della chiesa.

Bisognava correre ai ripari e i loro pensieri venivano pubblicati su fogli e foglietti affissi di nascosto proprio su queste sculture.

Il Congresso degli Arguti consiste di ben sei sculture.

Annoverato tra i più conosciuti è il Pasquino, una statua ormai assai mal ridotta vicino campo de Fiori, al centro di Roma.

Le altre si chiamano: Marforio, Madame Lucrezia, il Facchino, l’Abate Luigi e il Babuino.

Quell’ultima fu giudicata talmente brutta che i romani la battezzarono proprio “er Babuino” , paragonandola a una mera scimmia, appunto.

Non vorrei però tediarvi troppo parlando di tutti i dettagli su queste sculture.

Giocoforza qualcuno potrebbe darmi della leziosa e stucchevole.

Siamo li?

Secondo poi, potrei sforare nel tempo, facendole girare a qualcuno.

Sto scalpitando però per introdurvi una di queste cosiddette “pasquinate“, anch’essa annoverata tra i più famosi discorsi tra le statue parlanti, e riguarda l’occupazione francese, che dava del filo da torcere a tanti perché le truppe napoleoniche razziarono a man bassa il patrimonio artistico di Roma (1808 – 1814)
Eccolo:

Albèric (Marforio) È vero che i francesi son tutti ladri?

Sofie (Pasquino): Tutti no, ma “bona parte”, si.

Bogusia: Allora, avete in vista qualche viaggio a Roma? E magari durante qualche tappa del vostro viaggio vi imbattete in queste sculture? Può darsi allora che vi coglierà alla sprovvista il fatto che anche oggi si possa scorgere qualche foglietto appiccicato sulle sculture.

Allora si presenta anche a voi l’occasione per cimentarvi con qualche satira. Potete appenderla su una di queste statue parlanti e chissà, magari questo sarà anche il vostro esordio nell’ambito della satira.

Non ne risentirete sicuramente perché si fa in modo anonimo. In bocca al lupo!